mercoledì 4 gennaio 2012

La Befana vien di notte...

Chissà se ancora vien di notte la Befana, "con le scarpe tutte rotte". La povera vecchia sdentata, miope, con i capelli bianchi e le spalle curve, con lo scialletto viola e la scopa, con i doni poveri per bambini che sarebbero inevitabilmente restati poveri. Chissà se la Befana viene ancora? Quanta invidia, poveretta, deve aver provato per Babbo Natale, con il suo codazzo di renne e folletti, la barba candida e il vestito rosso con i bordi di pelliccia. Lei invece, la vecchia Befana delle montagne della nostra infanzia, ancora sulla sua scopa, con la gerla sulle spalle e le calze di lana che l'aspettano sotto il camino. Una vecchia sporca di carbone che ha avuto visibilità solo nell'immaginario ideale, ma che non ha potuto permettersi mai un costume 'vero' o un'iconografia di scena. Anzi, peggio, perché l'immagine della cara vecchina che porta doni viene accostata sempre più a quella di una strega maligna.


Eppure anche la Befana avrebbe avuto diritto ai suoi quarti di nobiltà antropologica. Nasce con i riti pagani arcaici della montagna e delle campagne, quando la natura sembra morire con il tempo che si accorcia e con la terra che sprofonda in un buio che è, insieme, inverno e inferno.
La Befana è figura magica di contatto tra il mondo infero e la resurrezione della primavera; viene dichiaratamente dal mondo dei morti ma è anche spudoratamente araldo di una palingenesi possibile. Porta doni ai bambini perchè i bambini sono la speranza nuova della terra fecondata e, non ancora completamente assorbiti dal mondo degli adulti; sono il contatto perfetto tra il mondo passato e quello della rinascita.
La Befana è quindi un mito campestre delle origini, prima che una vulgata edificante riuscisse a trasformarla in favoletta: quella della buona vecchina del presepio che, non avendo portato un dono a Gesù Bambino che nasce, vaga ancor oggi per il mondo portando doni a tutti i bimbi perché spera di ritrovare quel Bambino che si è persa duemila anni fa.

Edificante, questa buona vecchia presepiale, e meno inquietante certo della vecchiaccia di stoppa e cenci che veniva portata di aia in aia per essere bruciata su un rogo propiziatorio che illuminasse tutti, simbolicamente, nella notte della natura d'inverno. Oppure più compunta dei giovanotti che si aggiravano di paese in paese, travestiti da vecchie sdentate e ghignanti, a reclamare un vezzo dalle ragazze, un dolce e un bicchier di vino dalle famiglie, e restituendo un canto o una 'befanata' arguta e, a volte, pesantemente allusiva.



Tutte le storie del Natale, dell'inverno e della primavera, dei cicli della terra, si legano tra loro in un cerchio senza fine e la nostra Befana, la cara vecchina, politicamente corretta, che porta i dolcetti ai bambini buoni (e il carbone ai cattivi!), si connette al crepitar delle fiamme del fantoccio che brucia e assomiglia come una goccia d'acqua agli spiritelli di Halloween.
Somiglia, o meglio somigliava. Perché oggi l'inquietante vecchia dei monti, povera della miseria di quei monti, possiamo trovarla a distribuire chicche alla Coop o all'Esselunga, e i dolci antropomorfi dell'inverno (le 'fantocce' del Valdarno superiore, ad esempio, che Levi Strauss avrebbe definito 'kashine' rituali e che invece hanno ormai perso tutti i collegamenti apotropaici con la realtà quotidiana) sono soltanto un biscotto 'casalingo' da forno che non ha l'appetibilità 'moderna' o l'appeal di un ovetto kinder o di un Daygum. E dentro la calza non ci sarà certo più una noce, un mandarino, una mela o un fico secco, ma forse un telefonino di ultima generazione. E la Befana, quella vera e antica, non ne sarà certo contenta. (da sdz)

Illustrazioni di Andrea Rauch da Storia d'inverno, di prossima pubblicazione

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