venerdì 30 settembre 2011

Ricordatevi di Esopo


Dal 22 settembre è in libreria  Le favole del Lupo e della Volpe, di Esopo, a cura di Tiziana Roversi, edizioni Prìncipi & Princípi, con le illustrazioni 'storiche' di un maestro 'storico' dell'illustrazione: Pirro Cuniberti, che disegnò le sue favole nel lontano 1952 per l'editore bolognese Cappelli.

La nuova stampa del volume sarà presentata a Bologna, presso la libreria Giannino Stoppani, Palazzo Re Enzo Via Rizzoli 1f, domenica 2 ottobre alle ore 16, alla presenza del Maestro Cuniberti, che firmerà e dedicherà le copie. 

Tiziana Roversi leggerà alcune favole e sarà presentata l'attività della casa editrice. 

giovedì 29 settembre 2011

Quarant'anni di Teatro, di Gioco, di Vita

Emanuele Luzzati, Odissea, 1984
Le esperienze della 'figura', fondamentali per la maturazione visiva di un teatro sperimentale diverso da quello degli ‘stabili’, sono conosciute e frequentate quasi solo da bambini, maestre, appassionati, addetti ai lavori. Pressoché sconosciute ad un pubblico diffuso.

Emanuele Luzzati, Odissea, 1984
 Di particolare importanza nel settore (vuoi per durata nel tempo, vuoi per continuità di intenti, vuoi per qualità di elaborazione) l’esperienza di Teatro Gioco Vita che, partito nel 1971 come gruppo di ‘animazione teatrale’, con una forte caratterizzazione pedagogica e, perché no, politica (sono mitici, nel ricordo di quella pedagogia, i libri che Franco Passatore, Silvio Destefanis e Ave Fontana andarono compilando in quegli anni: un titolo per tutti , “Io ero l’albero, tu il cavallo”), è andato via via puntualizzando la sua proposta nel particolarissimo genere del ‘teatro d’ombra’, indagato in ogni sua piega e sfumatura, al di qua e al di là della tradizione orientale.



Andrea Rauch, Il castello della perseveranza, 1985


Andrea Rauch, Peter tra il Qua e il Là, 1993
Quelli di Teatro Gioco Vita, sempre coordinati da Diego Maj, leader e anima storica del gruppo e allestiti, per la parte concettuale e metodologica da Fabrizio Montecchi (che di moltissimi cura anche la regia e l’apparato scenico), sono spettacoli di gran fascino, stupefacenti e mirabolanti. Contengono tutta la sapienza e la magia degli ‘effetti speciali’ fatti con un suono, una luce, una candela, un’ombra su teli che si muovono, ballano, ondeggiano, diventano mare, cielo, azione. Naturalmente è difficile, con poche parole, riandare al nocciolo di un’esperienza quarantennale che è passata, via via sperimentando, dalla sagoma nera al colore, dall’oggetto al corpo, dal telo fisso ai teli mobili.

Il gruppo, mantenendo salda l’impostazione di fondo, si è sempre aperto a collaborazioni grafiche, registiche, musicali, teatrali in senso generale, che potessero apportare linfa nuova su un corpo ben piantato. Così nel corso del tempo gli spettacoli di Gioco Vita hanno visto le collaborazioni di Leo Lionni, Enrico Baj, Graziano Pompili, Tonino Conte, Egisto Marcucci, Paolo Poli, Andrea Rauch, Tino Schirinzi, Nicola Piovani, Ivano Fossati, Oscar Prudente, Nicola Lusuardi, Piero Formentini. Fino a giungere, punto di vertice ma anche di partenza per l’esperienza figurale, a Lele Luzzati, che preparò molti degli spettacoli più belli e famosi e a Nicoletta Garioni che oggi costituisce, nel disegno e nella costruzione delle sagome, l’anima pittorica ed emotiva del Teatro, capace di solidissima autonomia creativa ma anche soavemente disponibile a dar mano ‘realizzativa’ agli artisti 'ospiti'.

Emanuele Luzzati, La boîte à joujoux, 1986

Leo Lionni, Pescetopococcodrillo, 1986

Nicoletta Garioni, Miracolo a Milano, 2002

Nicoletta, bravissima e giovane, costituisce, per Teatro Gioco Vita, una specie di ‘memoria al futuro’, quasi una vestale preziosa di una grande esperienza collettiva. La certezza della continuità. Dal 1971 ad oggi sono passati quarant’anni precisi (Dodicimilacinquecentoventi giorni, e più, come assicurava il titolo del librone autocelebrativo pubblicato un paio di anni fa da Electa) ma si può essere sicuri che l’esperienza non si arresterà qui.

Enrico Baj, L'uccello di fuoco, 1994

mercoledì 28 settembre 2011

Maestri 14. Leo Lionni

Nato ad Amsterdam nel 1910, Leo Lionni passò tutta la vita tra l’Europa e l’America. Futurista della seconda generazione, attivo a Milano negli anni Trenta, nel 1938 emigra negli Stati Uniti a seguito delle leggi razziali. Tra i fondatori della grafica americana moderna. Art director di Time Life, Fortune, Print. Autore di fondamentali libri per bambini (Piccolo blu Piccolo giallo, Federico...) che hanno venduto, nel mondo, decine di milioni di copie. Muore nella sua casa di Radda in Chianti nel 1999. In Italia i libri di Leo Lionni sono pubblicati da Babalibri.


Pezzettino, 1975
(…) Ricerca di identità: a ben guardare ogni opera, ogni libro di Leo Lionni, è fondato su questo elemento.  

Pezzettino intraprende un lungo viaggio nella terra dei mosaici chiedendosi, e chiedendo a tutti ostinatamente, chi egli sia, di quale società, di quale insieme, possa far parte. Cornelius, il coccodrillo che cammina eretto e che quindi vede più lontano degli altri, impara a dondolarsi ai rami degli alberi con la coda e, insegnandolo ai coccodrilli della palude, schiude a tutti un mondo nuovo di conoscenza.

«La vita lungo il fiume non sarebbe più stata la stessa.»

Con la precisazione doverosa che, in genere, il raggiungimento dell’identità cercata dai protagonisti delle storie si realizza pienamente solo in rapporto con il proprio contesto. La consapevolezza di sé passa sempre, nelle storie di Lionni, dal riconoscere appieno la propria natura, nell’accettarla con serenità e nel viverla in accordo con gli altri.

Cornelius, 1983

Swimmy, 1963
Il banco di pesciolini rossi di Swimmy esalta quindi la propria collettività (ma al tempo stesso riafferma anche le singole identità) col disegnare, unendosi a schiera, un enorme squalo, spauracchio per i grandi pesci che prima inseguivano i più piccoli. Naturalmente Swimmy, il pesciolino nero progettista dell’illusione, ne sarà l’occhio, il punto focale e riuscirà in questo modo a trovare un proprio, appagante, ruolo essenziale.

Il piccolo camaleonte di A colour of his own, che non sa rassegnarsi al suo ondivago cambiar di colore ad ogni cambiar di erba e stagione, trova pace solo quando un camaleonte più saggio lo fa riflettere sulla loro natura comune: «Non potremo mai avere un colore tutto nostro?». «Ho paura di no. – ma aggiunse – Perché non stiamo insieme? Cambieremo colore ogniqualvolta ci sposteremo ma tu ed io saremo sempre uguali

A color of his own, 1975

C’è però, come sempre, una significativa eccezione che tende a confermare la regola. Frederick, il topo che raccoglie i suoni, le parole e i colori dell’estate per rendere alla comunità dei topini più sopportabile l’inverno, è forse l’unico personaggio di Lionni pienamente consapevole del proprio stato. Frederick dà soluzione positiva alla fiaba esopica della Cicala e della Formica: «... sognando, e a volte solo sognando, è possibile superare i momenti brutti e grigi della vita

Ma Frederick, come dice il finale della storia, «è un poeta, e lo sa» «... you are a poet! Yes, I know!».
In questo caso la consapevolezza della propria identità è il fulcro essenziale della favola.

Frederick, 1967

Little Blue and Little Yellow, il primo libro per bambini di Leo Lionni, è datato 1959. La notazione temporale non è un semplice dato bibliografico. Nel 1959, a 49 anni, Lionni ha raggiunto la completa affermazione professionale e la piena maturità culturale e artistica. Da quasi dieci anni è il celebrato art director di Fortune, è direttore della rivista di grafica Print, consulente apprezzato del Museum of Modern Art di New York, del Metropolitan Museum, di Olivetti of America. È stato presidente dalla International Design Conference di Aspen e dell’American Institut of Graphic Art. Per non citare la sua amicizia, ormai annosa e fortemente cementata, con artisti quali Ben Shan, Bob Osborn, Sandy Calder. (...)

Little Blue and Little Yellow, 1959

Little Blue and Little Yellow nasce direttamente dall’esperienza grafica di Lionni. Pochi i contatti con l’illustrazione per bambini coeva, ancora fortemente ancorata a bambinerie sciroppose e a rappresentazioni tradizionalissime. Leo Lionni entra nelle nurseries americane degli anni Cinquanta con un libro dirompente, che non offre soltanto una storia edificante e belle illustrazioni, bensì un progetto grafico razionale sostanziato da segni colorati che assumono valore narrativo per la loro straordinaria carica suggestiva.

«Quando sentiamo una parola – è ancora Lionni che parla – prima di associarla a una figura precisa, anzi invece di associarla a una figura precisa, compiamo una sorta di ‘gesto’ interno che ce ne permette l’identificazione. A tutte le parole (casa, albero ecc.) non accoppiamo un’immagine ma un nostro proprio ‘gesto’ interno. Questa è la base comune per l’identificazione degli oggetti e quindi il minimo comun denominatore per ogni astrazione.»

Little Blue and Little Yellow è, naturalmente, pieno dei gesti di cui parla Lionni. Con pochi pezzetti di carta e con l’illusione creata dalla loro disposizione e dal loro muoversi sulla pagina si costruisce un sistema minimo di vita e d’avventura. Seguendo i suggerimenti dell’artista si può davvero pensare che il Piccolo blu e il Piccolo giallo, con le loro avventure domestiche e i loro giochi infantili, siano i gesti di rappresentazione di bambini, ma può anche darsi che siano solo quello che sembrano: pezzetti di carta affidati alla sapienza illusionistica del narratore.

«Mi capita spesso di fare conferenze o lezioni a bambini piccoli. Allora chiedo di disegnare un cane o un gatto o un topo e tutti sanno cosa sono un cane o un gatto o un topo. Poi dico di disegnare un coniglio e ancora non ci sono difficoltà. A questo punto tutti sono interessati e io dico: Adesso disegnate un ‘biba’. Tutti rimangono zitti perché non sanno che cos’è un ‘biba’ che, naturalmente, è qualcosa che non esiste. “Come, dico io, non siete capaci di disegnare un ‘biba’? Adesso vi racconto una storia: un ‘biba’ si trova in un prato quando incontra un altro ‘biba’. Come stai? chiede il primo ‘biba’. Bene, risponde l’altro. Perché non facciamo una passeggiata?” La storia che racconto non ha nessuna importanza ma fa sì che il ‘biba’ non sia più una parola senza significato ma un qualcosa che, si muove, parla, entra in rapporto. Il ‘biba’ comincia ad esistere e ad essere definito non dai suoi connotati ma dalle sue azioni. I bambini cominciano a vedere davvero il ‘biba’. Il passo successivo potrà essere la sua rappresentazione grafica.»

Little Blue and Little Yellow, 1959

Con Little Blue and Little Yellow comincia la riflessione grafica di Lionni intorno al tema dell’identità e a quello della rappresentazione: «Sono convinto che sia molto più facile per un bambino identificarsi nell’immagine di un topo, o di un pezzetto di carta colorata, piuttosto che in quella di un bambino. Il problema dell’immedesimazione è enorme: se il bambino che legge è nero e il protagonista del libro è bianco come è possibile l’immedesimazione? Se il protagonista del libro è un topo il problema non esiste, perché è un simbolo, come lo è Piccolo Blu.»
E ancora: «Nei libri per bambini ci deve essere una metafora decifrabile ma anche qualcosa di indecifrabile... Penso che le cose che un bambino non capisce subito agitino la sua immaginazione, accendano la curiosità: questo è importantissimo.»
Quello del contatto tra il bambino e l’esperienza, tema centrale nei libri per l’infanzia di Leo Lionni, ha giustificazione teorica nella lunga introduzione che Bruno Bettelheim ha dedicato, nel 1985, alla raccolta The Frederick’s Fables:

Fish is fish, 1970
«Nella storia Fish is Fish, la sequenza delle immagini racconta al bambino che due individui identici da piccoli possono, crescendo, diventare esseri molto diversi... La storia è l’esempio di come la nostra immaginazione possa portarci alla deriva se non fa i conti con l’esperienza diretta.
La rana si sforza di dire al pesce cosa sa di un mondo che il pesce non ha mai visto. Le informazioni sono tutte corrette eppure ciò che il pesce fantastica sulla base di quanto ascolta è ben lontano dal vero. Il pesce immagina gli uccelli come pesci con le ali; le mucche come pesci con quattro zampe, due corna e le mammelle; e la gente come pesci vestiti di tutto punto ed eretti sulle gambe. 

Le immagini di questa storia contengono, nella più semplice e diretta delle forme possibili, il pensiero di quel filosofo greco il quale aveva intuito che se una mucca potesse pensare a Dio, gli attribuirebbe le sembianze di una mucca. 
Senza rendersene conto in maniera esplicita il bambino impara implicitamente da queste immagini che se un pesce pensa a tutte le altre creature come se fossero pesci, così anche lui è probabile che commetta lo stesso errore e immagini il mondo nei termini della sua personale esperienza...» (…)

In uno dei suoi ultimi libri, Matthew’s dream, Leo Lionni racconta la sua vita artistica sotto forma di parabola: è la storia del topino Matteo che sogna di essere pittore e di esporre le sue opere nel grande museo.
Le tele che Matteo ha visto in sogno, naturalmente, sono dei grandi Matisse, dei grandi Mirò, dei grandi Lionni.

Testo tratto da: Andrea Rauch, Il mondo come Design e rappresentazione, Usher Arte, 2009.  

Matthew's dream, 1990

martedì 27 settembre 2011

Angoscia e ambiguità di E.T.A. Hoffmann

Una volta o l’altra dovremo dedicare un po’ di tempo e spazio a uno dei miti fondanti della letteratura europea, quello della trasformazione, del passaggio, intesi come crescita e cambiamento, come modo di maturare e cambiare la propria esperienza. E se a volte la trasformazione (la metamorfosi) può essere crudele e insensata (Kafka), in altri casi può risultare ambigua, angosciante, paranoide, folle, oppure preludere, raramente però, al più solare dei lieti fine. E stiamo pensando ad E.T.A. Hoffmann che, nei suoi racconti inzuppati quant’altri mai dal romanticismo tedesco (quindi la madre di tutti i romanticismi!) tocca queste corde e le fa vibrare in modo raramente intenso.

Maurice Sendak, 1984

I racconti di Hoffmann nascono spesso da una contrapposizione: lucidità e follia, uomo e automa, realtà e favola, notte e giorno. E spesso i piani si mescolano risultando inestricabili, slittano l’uno dentro l’altro, si sovrappongono e sfumano.

Fabian Negrin, L'uomo della sabbia, 2010
Chi è l’uomo della sabbia del racconto omonimo? Un vecchio avvocato? un alchimista satanico? un costruttore di automi? un occhialaio meccanico? Coppelius-Coppola, in quella storia, recita molte parte in commedia. Come il professor Spallanzani che crea una vita di seconda mano (la bambola Olimpia), incompleta e insoddisfacente, comunque angosciante, cui lo studente Nataniele è incapace di sfuggire.
In ogni caso Coppelius-Coppola-Spallanzani sono anche un ‘passaggio’, un oggetto quasi 'transizionale', il punto di contatto tra due realtà diverse che, senza il loro intervento, non riuscirebbero a toccarsi. Esattamente come il padrino Drosselmeyer di Schiaccianoci e Re dei Topi, anch’esso ambiguo, sfuggente, costruttore di giocattoli meccanici costretti, per loro natura, a ripetere gli stessi movimenti e ad essere, quindi, pallida ombra della vita vera.


Frontespizio di E.T.A. Hoffmann,1906
Drosselmeyer è, davvero, un ‘oggetto transizionale’; muove gli elementi della realtà e del sogno, è attore e testimone della metamorfosi di Schiaccianoci e della principessa Pirlipat, mescola i piani del racconto rendendoli così confusi che il mondo 'alla dritta' può apparire 'alla rovescia' e l’esperienza sognata di Marie Stahlbaum diventare più vera del reale. Ed è proprio questa l’impressione finale della lettura del testo di Hoffmann: quel non sapersi decidere se la realtà sia la veglia o il sonno. Ma da quella realtà, o sogno che sia, Marie Stahlbaum ne uscirà comunque cresciuta, più consapevole e matura.

Naturalmente su Schiaccianoci grava come un macigno l'eredità del balletto di Piotr Ilijc Tchaikovski, che musicò il libretto di Marius Petipa tratto dalla riscrittura di Alexandre Dumas. L’angoscia originale si perde quasi tra le musiche del balletto, gradevoli (anche troppo!) e sostanzialmente incapaci di restituire al racconto l’ambiguità e l’incertezza che sono gran parte della sua cifra stilistica. E anche Maurice Sendak, che disegnò nel 1984 i costumi e le scene per il balletto messo in scena da Ken Stowell per il Pacific Northwest Ballett, sembra risentire dell’understatement della musica tchaikovsvkiana e ci offre una silloge di disegni, senz’altro belli, ma che nulla hanno dell’inquietudine di Hoffmann e nemmeno di quella di cui Sendak stesso era stato capace in alcuni dei suoi capolavori (Outside Over There).

Scene di Maurice Sendak, 1984



Più vicina allo spirito originario la versione del 1996 di Roberto Innocenti che, con il suo tratto accuratissimo, ci trasporta in un mondo senza soluzione di continuità tra la realtà sognata e il sogno realizzato. Nei disegni di Roberto serpeggia e formicola l’angoscia. L’incubo notturno è veramente un incubo e la scena si agita e si trasforma con il procedere degli eserciti che si fronteggiano nel salotto buono di casa Stahlbaum, incerti se tutto questo è un delirio, una febbre, o l’avverarsi degli intrighi hoffmanniani di Drosselmeyer, mago improbabile dalla marsina gialla, la benda nera sull’occhio e la parrucca di vetro.

Tre illustrazioni di Roberto Innocenti, 1996


lunedì 26 settembre 2011

Salaborsa, la Biblioteca illustrata

"Se tanti bambini avranno la possibilità di osservare, giorno dopo giorno, queste immagini collocate là, tra di loro, in una sorta di laica sacralità, queste immagini che esaltano proprio la loro condotta di lettori giovanissimi e sembrano elevare il loro quotidiano contatto con i libri fino al livello di una funzione misterica, verso un rito di cui sono adepti e celebranti, allora il nobile intento pedagogico dei loro bibliotecari sarà raggiunto e darà i suoi frutti." (Antonio Faeti


La Biblioteca dei Ragazzi del Comune di Bologna fu inaugurata alla fine del 2004 e collocata nei locali, appena appena ristrutturati, di quella che era la Sala Borsa, tra via Ugo Bassi e la Piazza del Nettuno, appoggiata praticamente a Palazzo d'Accursio, sede del Comune di Bologna. Un luogo che più centrale non si può e, se proprio si vuol vederne la simbologia, pone le attività per i ragazzi, come scrisse Antonio Faeti nell’introduzione appena citata, in una posizione 'centrale' tra le attività dell’amministrazione.

Francesca Ghermandi

Salaborsa Ragazzi nasce come momento di aggregazione e formazione, biblioteca ma anche ludoteca, ambiente da frequentare nel tempo e con continuità, oggetto d’affezione. Proprio per questo si volle illustrata; stanze che fin dalle pareti restituissero agli utenti, piccoli e grandi, il senso completo dell’iniziativa.

Francesca Ghermandi

Francesca Ghermandi si occupò della 'Sezione Gnomi', per i bambini molto piccoli, uno spazio lettura e gioco che somiglia parecchio a una bella scuola per l'infanzia, con i disegni strani e folli di Francesca che corrono per le pareti, Octavia Monaco illustrò lo spazio delle fiabe, Vittorio Giardino le stanze dedicate alla letteratura scientifica e educativa, Filippo Scozzari quelle dedicate alla letteratura per adolescenti.

Filippo Scozzari

Per ultimo una gloria cittadina (last but not least), un vecchio maestro bolognese, Wolfango Peretti Poggi, che si prese la briga di riassumere, con i suoi disegni, la storia e i personaggi più popolari della letteratura per l’infanzia, da Pinocchio al Piccolo Principe a Little Nemo.



Non vale nemmeno la pena di citare, in questi anni che separano dall’apertura della Biblioteca, quante sono state le iniziative, i dibattiti, le mostre, le attività ludiche ed educative che lì hanno trovato sede. Il risultato generale, sotto gli occhi di tutti, è caldo e significativo. Un luogo dove ci si sente a proprio agio, un sussurrante benvenuto, come diceva l’introduzione al catalogo della biblioteca, a tutti i bambini che entrano 'dentro' i libri illustrati.

Addio, Aquila della Notte!

Anche se è pleonastico e quasi stucchevole dirlo, la morte di Sergio Bonelli lascia un grande vuoto nell’editoria, nel mondo del fumetto, nella cultura italiana. Perché Bonelli era non solo l’editore di maggior successo del settore in italia, ma anche il trait d’union tra l’industria e la produzione intellettuale, tra le ragioni dell’una e dell’altra, capace di non rinunciare mai alle ragioni stesse che avevano dato vita, con suo padre, il mitico Gian Luigi Bonelli a quel Tex, Aquila della Notte, che fin dagli anni quaranta si era schierato dalla parte della ragione e del diritto, senza guardare mai al colore della pelle.


Tex Willer e Kit Carson disegnati da Giovanni Ticci

I Bonelli, perché anche Sergio aveva partecipato a quell’avventura scrivendo molte storie di Tex con lo pseudonimo di Guido Nolitta (per non confondere la sua personalità con quella del ‘mitico’ padre), paladini dell’integrazione razziale ante litteram? Potrebbe anche dirsi così, ma ci piace soprattutto pensare che fossero paladini del buon senso, contrari all’arbitrio, alla violenza contro i più deboli, alla prevaricazione, all’affarismo.

Sergio Bonelli era stato anche autore della sua casa editrice, curando per molti anni le storie di Zagor e di Mister No. Gusto dell’avventura, del fantastico, un pizzico di anticonformismo, accuratezza dei particolari storici e dei riferimenti; queste le caratteristiche della sua scrittura, che aveva certo mutuato dal padre e che aveva cercato di trasmettere ai suoi collaboratori.

La squadra di Bonelli (negli anni si sono aggiunti ai titoli della casa editrice, Dylan Dog, Ken Parker, Nathan Never, Martin Mystere…) è stata, e ci auguriamo che continui ad essere, una delle scuderie italiane di fumettisti più seria e qualificata: si devono ricordare, a questo riguardo, Aurelio Galleppini (il primo disegnatore di Tex), Guglielmo Letteri, Giovanni Ticci, e poi, alla rinfusa, Fusco, Niccolò, Civitelli, Villa senza dimenticare gli apporti saltuari, vere e proprie dichiarazione d’affetto di molti altri grandissimi, quali Buzzelli, Milazzo, Magnus. Chi conobbe Sergio Bonelli ricorda il suo essere sempre ‘dalla parte degli autori’ e non solo dalla parte della sua impresa. Ci piace sottolineare questo aspetto.

Oggi Aquila della notte, lo Spirito con la scure, Lungo fucile, l’Indagatore dell’incubo e tutti gli altri personaggi delle sue storie, sono tristi. E noi siamo tristi con loro.

domenica 25 settembre 2011

Ubu Re, l'idiota creativo



Andrea Rauch

Chi è Ubu? si chiede nel pezzo che pubblichiamo di seguito Vittoria Ripamonti. Le risposte possono essere tante ma sopratutto Padre Ubu, creatura pata e metafisica, gran dissacratore delle convenzioni, è personaggio 'scandaloso' perché appunto incapace di rispettare quello che il senso comune si aspetta. Non è quindi un caso che sia stato sempre amato dagli 'irregolari' del mondo della grafica e del teatro, a partire dai primi schizzi di Alfred Jarry per risalire addirittura a Joan Mirò, e poi su su, verso Lele Luzzati e Jan Lenica, che dedicò al personaggio di Jarry un introvabile film di animazione, e al patafisico moderno Enrico Baj che a Ubu ha tributato più di un omaggio. La nostra casa editrice ha pronti, in attesa del proprio turno di stampa, i tre libri di Ubu, disegnati da Andrea Rauch. Sarà quella l'occasione per ripercorrere la fortuna di un personaggio tra i fondamentali del teatro moderno.


Alfred Jarry
Il cialtrone divino
Vittoria Ripamonti

Quello che fa ridere i bambini fa paura ai grandi.
Alfred Jarry


Dunque chi è, o cos’è, Padre Ubu? È un manigoldo, un vigliaccone, un subdolo, un violento, un prevaricatore? Uccide il tiranno per farsi lui stesso tiranno, dilapida fortune e ne ammassa altre, distribuisce ai poveri e toglie ai ricchi, ma toglie soprattutto ai poveri, e a tutti, per farsi più ricco. Va alla guerra ma si nasconde. Manda i soldati alla carica ma è il primo a fuggire. Con lui tutti possono cascare nella botola, “nel buco”, o sprofondare nella sua tasca, inghiottiti da quella spirale senza fondo, la sua “giduglia”, che somiglia al vortice incantato dove Alice va a cercare il suo paese meraviglioso.
E basterebbe, in fondo, quest’elenco per far apparire chiaro che Padre Ubu può essere tutto e il contrario di tutto. E quindi “è” tutto!

Il Padre Ubu esiste, – ebbe a scrivere il giornalista Catulle Mendès, nel 1896. – Misto di Pulcinella e Polichenelle, di Punch e di Karagueus, di Mayeux e di Joseph Prud’homme, di Robert Macaire e di M. Thiers, del cattolico Torquemada e dell’ebreo Deutz, di un agente di pubblica sicurezza e dell’anarchico Vaillant, enorme parodia impropria di Macbeth, di Napoleone, di un manutengolo divenuto re, egli esiste, ormai, indimenticabile. Non vi libererete facilmente di lui…

Enrico Baj
Enrico Baj

Enrico Baj
Mendès cercava di fare un ritratto fortemente negativo di Ubu e dell’opera di Jarry; in realtà finì per tracciarne il ritratto assoluto e perfetto, l’identikit, la definizione inevitabile. Perché il Padre Ubu è un ossimoro, ma è anche uno dei grandi archetipi della storia del teatro, capace di raccogliere in sé ogni imprevedibile umore e bassezza, ogni formulazione ed enunciazione idiota o visionaria. E la sua compagna, quella Lady Macbeth in sedicesimo che è la Madre Ubu, è compagna degna (o indegna che è lo stesso) di tanto discutibile, e discusso, personaggio.

(…) Il Padre e la Madre Ubu sono al di là e al di sopra di ogni senso morale e di ogni scrupolo, realmente e perfettamente “patafisici” (essendo la patafisica, secondo Jarry, la “scienza delle soluzioni immaginarie”) come aveva provveduto a disegnarli e renderli vivi il loro autore.
Ubu e la Madre si contraddicono quasi ad ogni frase, si beccano e si ingiuriano, si inventano un mondo di riferimenti trucibaldi, deliranti, improbabili. La loro disputa eterna e ininterrotta è tra dire e disdire, affermare e contraddire. Disputa feroce e insensata, patafisica anch’essa, dove ogni soluzione può essere possibile, anzi sicura, perché immaginaria e quindi intangibile.

Enrico Baj

Joan Mirò
Padre Ubu è una costruzione giocosa e ghignante, scandalosa e infantile. Nasce nel chiacchiericcio pregoliardico di un liceo, a Rennes, nel 1885, e i primi canovacci che lo vedono agire si collocano a cavallo tra la beffa scolastica e la satira d’occasione, con il racconto, epico e rapsodico, delle gesta di un professore di fisica di quel liceo, fortemente indigesto, si suppone, ai suoi studenti.
Il professor Hébert, Ebée, è, in quel liceo, tradizione orale studentesca che passa di classe in classe, di bocca in bocca, di quaderno in quaderno: le sue gesta immaginate diventano quasi leggenda. Ebée, poi Ubu, mantiene il tono di fanciulla e sapida arroganza delle proprie origini occasionali, ne sublima il tono scanzonato e ammiccante, si pone subito, volontariamente e incoscientemente, al di là e al di fuori della società teatrale e civile francese di quella fine secolo. Il Padre Ubu ne può e ne vuol fare a meno. Di quella società intendiamo. Per questo è scandaloso.

Andrea Rauch
Ubu nasce anche come burattino del Théâtre des Phynances e questa sua altra natura drammatica giustifica e stempera gran parte delle sue colossali smargiassate, ci fa pensare a delle teste di legno prontissime a entrare dentro tutti i buchi o le tasche o le ventraglie del mondo, ma altrettanto pronte ad uscirne fuori e a ricominciare dal punto di partenza, a dare e prendere bastonate.
Burattini, dalla parola facile e dal vocabolario limitato e rozzo (ma Ubu parla anche in un bel latinorum e inventa continuamente concetti e parole, merdre, jidouille..., anch’esse del tutto patafisiche, che si vanno a incastonare nel testo apparentemente come deliri verbali, come il farneticare sconnesso di un fuori di testa). In realtà, in moltissimi passi, si tratta di gustosi riferimenti letterari che partono a volte da Gargantua, passano per il liceo di Rennes e approdano spesso alle poetiche dell’avanguardia. (…)


Andrea Rauch
Andrea Rauch

Quando Alfred Jarry mise in scena Ubu roi per burattini (1896), al Théâtre des Pantin, il Pinocchio di Collodi era appena uscito a stampa, nel 1883, e tra i due capolavori ci sono assonanze significative.
Pinocchio e Ubu nascono burattini e da questa evidente natura fiabesca e teatrale derivano una sostanziale alienità dal mondo che li circonda. Entrambi dicono e non dicono, si muovono in maniera sghemba e umorale, sono tutti nervi e sensi, 'drammatici e vegetali', lontani dalla freddezza e dai rigori della ragione. Entrambi mettono costantemente in dubbio, e nei fatti negano, le convenzioni del viver civile, i sentimenti buoni, ogni possibile o ipotizzabile logica di relazione.

Andrea Rauch
Abbiamo prima detto che Ubu è scandaloso: lo è anche Pinocchio, perché non risponde per le rime ma corre via, fugge, esce dalla tangente.
Pinocchio e il Padre Ubu sono figure imprescindibili della letteratura perché seminano e agitano il dubbio. Sono personaggi borderline, a cavallo delle esperienze e delle possibilità.
Secondo una felice definizione di Lewis Hyde ripresa da Antonio Faeti, Pinocchio e Ubu sono “… tricksters, che nascono affamati, ma ben presto diventano padroni di quella forma di inganno creativo che è un prerequisito dell’arte […] Il trikster è l’idiota creativo, il saggio buffone, il bambino dai capelli grigi, il travestito, il dissacratore. Laddove un senso di onesto comportamento impedisce a qualcuno di agire, lì apparirà il trickster pronto a suggerire un’azione amorale, qualcosa di insieme giusto e sbagliato, che permetterà alla vita di continuare.



Emanuele Luzzati

Ubu quindi mette in crisi i valori del suo tempo ma non si ferma a guardare i frutti dell’albero che ha piantato. Distrugge ogni ponte alle sue spalle e fugge lontano. Sempre secondo la lettura di Antonio Faeti, la laidezza, il cinismo, la scurrilità di Ubu lo possono sicuramente far iscrivere nell’elenco, sempre in via di aggiornamento, dei grandi cialtroni. Ma l’importanza di Ubu è, già detto, imprescindibile per il teatro del novecento e la sua ‘lezione’ è quasi ‘divina’.
Padre Ubu, un cialtrone divino, quindi.