venerdì 31 maggio 2013

Stazione di Topolò






"Topolò – Topolove, piccolo borgo di trenta abitanti sull’estremo confine italo-sloveno, nelle Valli del Natisone, diventa ogni anno nel mese di luglio un crocevia di incontri e scambi culturali degni di una capitale. Registi, musicisti, scrittori, fotografi, performers e uomini di scienza provenienti da tutto il mondo confrontano la loro ricerca con la molteplice realtà del luogo. Non è un festival, Stazione di Topolò/Postaja Topolove, ma un piccolo-grande laboratorio che coniuga la sperimentazione con l’arcaicità di una antica cultura e la forza dell’ambiente che la ospita.
Tutto ciò che accade prende vita dal contatto diretto con il paese, che diventa così motore principale e non scenario degli eventi. Tutto si svolge nei prati, nelle piazzette, lungo i vicoli e nelle case del borgo “dopo il tramonto”, “nel pomeriggio”, “verso sera”, gli unici orari conosciuti dalla Stazione.
E in luoghi reali-immaginari quali l’aeroporto, le 4 ambasciate, l’Istituto di Topologia, l’ufficio postale, la sala d’aspetto, l’Officina Globale della Salute, l’Istituto per le Acque, la Pinacoteca Universale, le antiche sinagoghe, le terme."

Francobolli per l'Ufficio postale di Topolò

Definire Topolò è quindi definire l'indefinibile. Il nome stesso lo situa in un universo che non sappiamo se vero o finto, se frutto di realtà o portato della fantasia. Non sappiamo bene cosa sia, cosa si faccia là (o meglio lo sappiamo ma tutto è così vago che preferiamo lasciarlo nella sua vaghezza), non sappiamo quando avvengano le cose (gli eventi, i concerti, le mostre...), e in fondo, nello spirito delle cose, nemmeno ce ne importa molto. La Stazione di Topolò è una grande performance collettiva cui tutti possono accedere, un evento surreal-comportamentista (si dirà così, boh!?) astratto e concreto, individuale e collettivo. Naturalmente come tutte le cose che esistono e non si sa bene quando né perché, anche la Stazione di Topolò è 'scandalosa' e quindi minacciata dalla burocrazia (quella della Regione Friuli-Venezia Giulia, nel caso), che ha tagliato pressoché l'intero contributo che permetteva alla Stazione di funzionare.


Due Picasso Guernica per la PUT (Pinacoteca Universale di Topolò)

E allora scatta la solidarietà (una volta si sarebbe detto 'militante') e su impulso di Guido Scarabottolo, sempre in prima fila nelle imprese defilate, divertenti, apparentemente incongrue, la Galleria milanese l'Affiche organizza, per il mese di Giugno, un'asta di opere per continuare a finanziare la Stazione. Nello stile della manifestazione l'Affiche non ci dice in che data si svolgerà l'asta (ci ha promesso, però, di farcelo sapere e di mandare in rete un sito dove poter vedere, e magari acquistare, in anteprima le opere).


Per chi volesse contribuire, con denaro o disegni, all'asta e quindi all'attività della Stazione di Topolò il suggerimento è di rivolgersi all'Affiche.

Evelina al Premio Arpino


Complimenti a Mara, Annalisa e Giulia che con la loro Evelina Verde Mela hanno ricevuto il secondo premio al Concorso Giovanni Arpino 2013, a Bra. La commissione di esperti della sezione dedicata ai ragazzi ha infatti selezionato una terna di lavori tra tutti quelli presentati e il giudizio finale è stato demandato alla giuria dei ragazzi. Pubblichiamo due delle motivazioni che i giovani giurati hanno affidato ai responsabili del premio.

Lucia Porta classe V: questo libro mi è piaciuto un sacco perché parla di un rinoceronte femmina di nome Evelina che una mattina di martedì si era svegliata e non trovava più il suo corno rosso ciliegia del martedì allora era andata al lavoro con il corno verde mela del mercoledì. Al lavoro aveva incontrato Gianni, che anche lui sbagliatosi* indossava il corno giallo scuolabus del lunedì. Ad un certo punto Gianni le aveva detto che era bellissima così lei disse tra sé e sé: “Io sono Evelina verde mela”così quel corno non lo cambiò più. Questo libro mi ha fatto capire che nella vita bisogna accettarsi per quello che si è.

Aurora Ravinale classe IV: assomiglia molto come impaginazione ed illustrazioni al libro intitolato La Quaglia e il sasso. È  una bella fiaba che fa sempre piacere leggere o meglio ancora ascoltarla dalla mamma quando sei nel letto prima di andare a dormire. È divertente rilassante e fa sognare. Mi piaciuto molto.

* Anche Lucia però si è sbagliata, perché il rinoceronte spettinato si chiama in realtà Adalberto.



giovedì 30 maggio 2013

Conversazioni con Luzzati

Lele Luzzati con il Palio di Siena, 2004
Sarà presentato oggi, 30 maggio alle ore 17,00, a Firenze, nel salone dell'Istituto degli Innocenti, il volume che Giorgio Macario ha dedicato alle sue Conversazioni con  Lele. Frequentazioni durate molti anni. mentre Macario metteva su la sua sterminata collezione di oggetti luzzatiani, e riportate, quasi un taccuino di bordo o il verbale di un interrogatorio, perché non se ne perdesse memoria.

Qual è stato, viene da chiedersi leggendo queste pagine, nel tempo il rapporto di Giorgio Macario con Emanuele Luzzati? È stato quello di un appassionato collezionista con il grande artista, “oggetto” principale della sua passione? O quello di un catalogatore pignolo e tassonomico con le sue ‘fonti’ d’archivio? O è stato il contatto-confronto continuo tra due amici?
Forse tutte queste cose insieme e la stesura con cui Giorgio ci dà conto del formarsi di quella collezione mette in luce ora l’uno ora l’altro di questi aspetti.

Conosciamo Giorgio Macario da molti anni ma non lo sapevamo in questa veste di conservatore e catalogatore puntuale e preciso (le copertine e le illustrazioni per il Dramma, i disegni per i dischi Fonit Cetra, le riviste per Genova...); né sapevamo delle domeniche di ‘revisione’ e di verifica che hanno punteggiato il formarsi e consolidarsi della sua raccolta di memorabilia luzzatiane. E quindi siamo stati felici di leggere la ‘bella copia’ di quegli appunti di ‘relazione’; felici in maniera egoistica e interessata perché in quelle pagine scorrono continui ricordi, aneddoti, immagini, che richiamano anche a noi, attivato l’uso della memoria, il ritratto del Lele che avevamo conosciuto e amato.

Lele Luzzati Copertine per Il Dramma, 1949
Non solo però, perché dalle parole asciutte di questo lungo verbale-racconto, balzano fuori, come tanti misirizzi (ma trattandosi di Lele diremmo, meglio, dei Pulcinella meccanici!) i personaggi e le situazioni che sono stati essenziale complemento alla sua vita ricca e, nella sua apparente semplicità, complessa per intensità di rapporti e di frequentazioni.
I nomi che compaiono qua e là per le pagine, ora avanzando in proscenio ora ritirandosi in secondo piano sono quelli che, chi ha conosciuto Lele, può facilmente immaginarsi: Sergio Noberini, Flavio Costantini, Giorgio Bergami, Piera Gaudenzi, Leo Lionni, Sandro Cortesogno, Alfredo Meconi… e vengono ricordati aneddoti luzzatiani ‘classici’ (dall’incontro con Picasso, insieme al partigiano Marzo nella Costa azzurra dell’immediato dopoguerra, all’invio degli ‘zozzetti’, molto apprezzati da un cliente americano).

Lele Luzzati Copertina per Genova, 1955

Ma poi, nelle pagine di Macario, riconosciamo tutta intera l’umanità di Luzzati; quel suo ricordare e dimenticare tutto allo stesso tempo, la sua passione entusiasta per il ‘fare’ (nessun homo faber come lui, crediamo ci sia mai stato!) e il suo scarso interesse per la gestione e la conservazione del ‘già fatto’, quel suo andare sempre avanti, verso il prossimo progetto, tornando forse indietro, come si racconta molte volte, solo per andare ‘nell’altra stanza’ a vedere se, nel caos della sua disorganizzazione creativa e funzionale, fosse possibile trovare o recuperare un’altra illustrazione, la copertina di una rivista o di un disco, l’edizione straniera di un libro, che potesse dare il via ad un'altra tornata di aneddoti e ricordi.

Lele Luzzati Copertine di dischi Cetra, 1956

Giorgio Macario, Conversazioni con Lele, Quindici racconti e venti incontri con Emanuele Luzzati, YouCanPrint, 2013, euro 15,00

mercoledì 29 maggio 2013

La coperta corta di Linus

Linus sospende le pubblicazioni e la notizia non può che dispiacere, anche se attualmente la rivista era ben lontana dagli esordi, cui eravamo affezionati, e i quasi cinquant'anni che passano dal suo primo numero, ne avevano cambiato impostazione, senso, significato, importanza. Noi continuiamo a guardare con nostalgia a quelle prime annate dirette da Giovanni Gandini e Oreste Del Buono, quando Linus costituì una fonte importante per la nostra crescita, personale e collettiva.
Mentre non possiamo che augurarci che Charlie Brown  e compagni riprendano presto la loro via di carta ripubblichiamo, come un esorcismo, il primo articolo del primo numero della rivista: un'analisi dei Peanuts discussa tra Umberto Eco, Oreste Del Buono ed Elio Vittorini. Analisi di un fumetto che era anche un approccio alla comprensione della società.


Charlie Brown e i fumetti
Umberto Eco intervista
Elio Vittorini e Oreste Del Buono (aprile 1965)

Eco
Oggi stiamo discutendo di una cosa che riteniamo molto importante e seria, anche se apparentemente frivola: i fumetti di Charlie Brown. Vittorini, com'è che hai conosciuto Charlie Brown?

Vittorini
lo mi sono sempre interessato di fumetti da tempi lontanissimi, da quando ero ragazzo. Me ne occupavo anche ai tempi di « Politecnico » e ricordo che una volta ho pregato il nostro amico Del Buono di intervenire su certi fumetti americani parlandone non soltanto sotto il profilo sociologico, come succede di solito, ma anche sotto il profilo storico.

Eco
Di che cosa avete parlato a quell'epoca?

Del Buono
Un po' di tutto, facemmo persino dei fumetti dai Promessi Sposi.

Vittorini
Sì, avevamo anche cercato di servirci dei fumetti come mezzo di divulgazione letteraria ma si trattava più che altro di un divertimento per noi stessi. Del resto uno « spirito di fumetto » c'era anche nel tipo di impaginazione che usavo per il « Politecnico » dove poi c'era una appendice interamente dedicata ai fumetti: Trevisani vi curò la pubblicazione di Li'l Abner e di Barnaby, il ragazzo afflitto dalla psicanalisi. Le storie di Barnaby erano uscite durante la guerra e noi su « Politecnico » ne riportammo due o tre.


Eco
E Charlie Brown?

Vittorini
Charlie Brown è venuto per un accidente. Io mi facevo mandare dall'America, da amici che ho lì, i supplementi domenicali dove ci sono i fumetti, però questo non l'avevo notato perchè quelle persone non mi mandavano mai la pagina giusta. Finalmente una volta ho visto in mano a una ragazza della Mondadori, nel '58-59, un album ancora di quelli formato « forze di liberazione ». Incuriosito, me lo sono fatto dare e ricordo che passai il resto del pomeriggio mondadoriano a guardarmeli^ Da allora li ho cercati sempre.

Eco
Tu che ti sei occupato tra i primi in Italia della tradizione narrativa americana, come collochi Charlie Brown nella letteratura americana?

Vittorini
Bisognerebbe prima stabilire a che tipo di letteratura appartiene Schulz, ma comunque, senza andare nel difficile, io lo avvicinerei a Salinger, però con un interesse molto più ampio e secondo me molto più profondo.

Eco
Allora secondo te è più artista Schulz?

Vittorini
Certamente. Salinger, resta, se vogliamo, poeta: però non riesce ad essere il poeta di una società, rimane un prodotto in fondo molto letterario (da questo punto di vista Ring Lardner, l'effettivo creatore del racconto « hot », o meglio «hard-boiled», soddisfa meglio certe esigenze di impegno). Salinger è un «patetico » che evade nel mondo dell'infanzia la quale non è, per lui, rappresentativa del mondo degli adulti, della maturità come lo è per Schulz dove l'infanzia è il « signifiant », il veicolo di questo mondo completo che è l'uomo maturo, un po' come Johnny Hart (quello di B.C.) che rappresenta il mondo moderno attraverso l'età della pietra.

Eco
E tu Del Buono come vedi Charlie Brown?

Del Buono
lo sono un convertito a Charlie Brown. All'inizio non mi piaceva affatto. Intanto il mio interesse per i fumetti era diretto al genere avventuroso e Charlie Brown non mi divertiva. Trovavo persone che ridevano, leggendo Charlie Brown, e cercavo questa parte di comico senza trovarla. Però a un certo punto è avvenuta proprio una specie di rivelazione: ho scoperto che i fumetti di Charlie Brown sono assolutamente realistici. È avvenuta addirittura un'identificazione: Charlie Brown sono io. Da questo punto ho cominciato a capirlo. Altro che comico, era tragico, una tragedia continua. Ed ecco finalmente ne ho cominciato a ridere. Un fumetto come diagnosi, prognosi ed esorcismo.

Vittorini
E qui vorrei fare un'osservazione di carattere strutturale rispetto a quello che dice Del Buono: lui denuncia un'incomprensione rispetto ai primi contatti con le strips di Charlie Brown. Il primo contatto in effetti non soddisfa: una singola strip di Charlie Brown non dice niente, è una barzelletta; però, nella quantità, quando interviene anche la ripetizione di certi motivi, e le strips si succedono costituite, un po' come le frasi musicali, di invariabili e di variabili, di tre invariabili e due variabili l'una, di quattro invariabili e una variabile l'altra, si ha allora un « continuo » che approfondisce non solo numericamente il significato iniziale e lo snoda, lo articola, fino a farlo coincidere con tutti gli aspetti di una realtà data.


Eco
Questo mi pare importante perchè molte volte quando si cerca di spiegare a qualcuno, che non è abituato ai fumetti di Charlie Brown, che essi sono importanti, questo qualcuno tende a giudicarli così come giudicherebbe una pagina di romanzo, una pagina letteraria. Legge un brano isolato, due o tre pagine e non vi trova effettivamente nulla. Per giudicare i fumetti per quello che valgono realmente, bisogna tener conto proprio della loro tecnica di distribuzione e di consumo, così come certe epiche popolari di un tempo trovavano il loro sviluppo proprio attraverso il ripetersi delle avventure. È quindi impossibile giudicare il fumetto con i criteri che si applicano alla letteratura normale. Questo non significa che il fumetto non possa essere un prodotto letterario: solo che esso va giudicato in un «sistema » di lettura (e quindi anche di creazione) diverso.

Vittorini
Va giudicato a partire da un certo punto: cioè da un punto in cui ci accorgiamo che è esplosa, per cosi dire, una globalità; un punto in cui è avvenuto una specie di «scatto di totalità ». Ma vorrei cercare di spiegarmi meglio. L'unità espressiva, l'abbiamo detto, è la strip, la sequenza. Prima della strip non abbiamo che la vignetta, una vecchissima conoscenza giornalistica, costituita da una figura e una battuta che si completano a vicenda e che esauriscono in un colpo solo quello che hanno da dire. Con la strip abbiamo non solo una moltiplicazione della figura e della battuta, una serie di quattro cinque figure e di altrettante battute, ma abbiamo anche un elemento del tutto nuovo, l'elemento della successione temporale, il quale si manifesta in due ordini sovrapposti, uno analogico per le figure e uno logico per le parole, benché poi le parole abbiano la prevalenza e investano della loro logicità letteraria tutto l'insieme riducendo le figure a non avere che dei compiti stereotipi, di descrizione, di caratterizzazione, ecc. ecc. come dei semplici segni pittografici. È questo terzo elemento che fa della strip un'unità espressiva, perchè rende puramente paradigmatico il valore di ogni vignetta a sé, e assume in proprio (all'interno del proprio decorso) l'elaborazione del significato. Ma la strip non esprime che un frammento di mondo, un aspetto di personaggio, un momento di rapporto e anche se in se stessa può riuscire pregevole lo riuscirà solo a livello di massima, di illuminazione, di appunto, di episodio, di aneddoto. La qualità ch'essa rivela non va oltre i limiti della sua durata, è minima, è precaria, può essere banalissima o comunque non più che divertente, e occorre che i personaggi, i rapporti, gli oggetti in essa trattati ritornino in altre strips un certo numero di volte, sei volte, sette volte, nove volte, anche quindici, sedici volte, accumulando momento su momento e aspetto su aspetto, perchè noi si possa entrare nel merito qualitativo del fumetto. A furia di quantità è avvenuto quello che ho chiamato «scatto di totalità », cioè si è formato un significato secondo, che subito si riflette su ogni singola strip, anteriore o successiva, e la carica di importanza, la fa essere parte di un sistema, dandoci il senso di avere a che fare con tutto un mondo. Quando è Charlie Brown o B.C.; quando è un buon fumetto, si capisce...


Eco
E qui viene fuori allora una conclusione abbastanza strana; mentre abitualmente i fumetti sono delle produzioni narrative da consumare subito come si beve un caffè, giorno per giorno e da buttare poi via, nella misura invece in cui sono riusciti, essi sono opera importante e sono qualcosa che va riletto. Le storie di Charlie Brown sono nate per essere consumate ogni mattino: proprio perchè sono importanti vanno invece conservate e rilette dall'inizio. Solo così acquistano senso.

Del Buono
Mentre, a esempio, i fumetti di tipo Gordon, che per me, da ragazzo, eran stati educativi o diseducativi, in qualche modo formativi insomma, visti tutt'insieme nella riedizione odierna entrano in crisi, proprio per la ripetizione. La ripetizione di dati schemi: Gordon e il cattivo imperatore Ming, Gordon e le belle regine colorate che lo vogliono sposare, Gordon e il traditore della sua generosità, Gordon e i vari draghi sdentati, eccetera, è una ripetizione che denuncia l'assenza di altre invenzioni più valide. È uno scacco, contrabbandato nell'ansito breve delle puntate, messo in luce dalla raccolta delle strisce, una monotonia casuale, non una ripresa significativa.

Eco
La forza di Charlie Brown è che ripete sempre con ostinazione, ma con un senso del ritmo, qualche elemento fondamentale. Come certo jazz ripete con ostinazione una certa frase musicale. Potremo quindi concludere dicendo: il buon fumetto è quello in cui la ripetizione ha un significato e accresce la ricchezza della storia, il cattivo fumetto è quello in cui la ripetizione annoia e dimostra povertà d'invenzione.

Le copertine che illustrano l'articolo sono della prima annata della rivista, 1965.

lunedì 27 maggio 2013

Addio a Roberto


Roberto Denti
Cosa si può dire di Roberto Denti che, in questi giorni, non sia già stato detto o ricordato? Poco, temo, perché l'importanza, la centralità, la presenza di Roberto nella cultura italiana, e segnatamente, nella cultura italiana "per i ragazzi", era fuori discussione. Ineludibile e necessaria.

Di Roberto Denti si potranno adesso ricordare le tappe importanti; la sua attività di scrittore, di uomo impegnato, più che politicamente, 'civilmente', di fondatore della prima e insuperabile libreria per ragazzi italiana, di 'ufficiale di collegamento' infaticabile tra tutti i segmenti che hanno animato, negli ultimi quarant'anni, quella parte della società italiana che vedeva, e vede, nei bambini e nei giovani la speranza del futuro.
E di Roberto ricordiamo, di conseguenza, quanta disponibilità e amore avesse verso tutto ciò che si muoveva nel libro, dentro il libro e nei dintorni, e di come non facesse mai mancare, anche a quasi novant'anni, la sua disponibilità, la sua presenza, la sua competenza e il suo affetto.

Roberto è stato, per tutti noi, un maestro e un amico. Parole che vogliamo sottolineare perché non sempre chi ci è maestro ci è amico e chi ci è amico è maestro. Eppure lui, e con lui la compagna della vita, vero e proprio suo alter ego, Gianna, lo è stato davvero, sempre e fino in fondo.

Di lui riandiamo a frammenti sparsi. Un racconto di gioventù durante una conferenza, una telefonata per commentare l'ultimo libro che gli era stato inviato, una cena durante un convegno, un cenno di saluto, un sorriso di attenzione. Di Roberto ci sentivamo, sempre e comunque, complici.

Ci mancherà tanto. Mancherà a tutti.

Roberto Denti a L'Aquila, 2012

sabato 25 maggio 2013

Scarpette rosse

Da adolescenti, quando, per le feste consacrate, ci spingevamo all’interno della chiesa parrocchiale, lo facevamo, ahimè sì, confessiamolo, quasi esclusivamente per tener d’occhio le ragazzine in fiore che si facevano vive per la messa; ci sedevamo dietro di loro, biascicavamo, o facevamo finta, qualche giaculatoria in un bel latinorum, se riuscivamo tiravamo loro, per farle indispettire, qualche capello fuori posto e qualche pelo di lana dei loro golfini domenicali. Ci distraevamo, in poche parole.



Anche la bambina Karen, come ci racconta il trucibondo Hans Christian Andersen, si distraeva parecchio durante le funzioni religiose, con il pensiero fisso alle sue amate, meravigliose, scarpette rosse da ballo. Il vendicativo angelo del Signore, indispettito certo da quell’irriguardoso comportamento della bambina la punisce mica male, costringendo le scarpette a ballare senza sosta, via e via, senza fermarsi mai. Alla bambina Karen non resta che farsi tagliare i piedi (sic) da un boia misericordioso, ma le scarpette, con dentro i piedini, pensiamo ingrommati di sangue, continuano a ballare da sole, via e via, senza mai riprender fiato.

Una favola agghiacciante che non ci piacerebbe leggere ad un bambino e che non ci piacerebbe che un bambino leggesse. Anzi, confessiamolo pure: quell’Andersen lì ci sta abbastanza antipatico e l’abbiamo sempre trovato parecchio indigesto.



Chissà se Lucia Baldini e Anna Dimaggio hanno ricordato quella fiaba progettando la loro performance itinerante Scarpe senza donne: una grande raccolta di scarpe usate, dipinte di rosso, esposte nelle piazze, adottate dalle associazioni locali, i “custodi”, che ricordano, con un numero simbolico, il 118, il numero delle donne uccise in Italia ogni anno (ma anche il numero del pronto intervento da chiamare in caso di aggressione).





Scarpe senza donne, rosse di sangue, scarpe e donne senza identità quasi, spesso dimenticate. Una performance allegra e colorata, come spesso le donne sanno mettere in piedi, ma anche, e soprattutto, seria e compunta, amara, con il suo retroterra di tragica e inquietante indifferenza.

Le foto che presentiamo sono state scattate nella piazza centrale di San Giovanni Valdarno nel pomeriggio di venerdi 24 maggio. Un pomeriggio ventoso, con il sole che stentava a farsi largo tra le nuvole di questa bizzarra primavera. L’installazione sarà di nuovo allestita nella stessa città il 22 giugno, in occasione della “notte bianca”. A quella serata diamo appuntamento. Sarà un altro momento di riflessione; e forse, per quell’occasione, la piccola Karen avrà rallentato, almeno un pochino, la sua crudele, folle danza.



mercoledì 22 maggio 2013

Premio Andersen 2013




(dal comunicato stampa) Arriva l'edizione numero trentadue del Premio Andersen, un'occasione per vedere, apprezzare, leggere, ascoltare e toccare i migliori libri per bambini e ragazzi pubblicati in Italia quest'anno e conoscere chi li ha scritti, illustrati, ideati e progettati. Anche quest'anno la cerimonia di premiazione ai svolgerà al Museo Luzzati a Porta Siberia, nel Porto Antico di Genova, sabato 25 maggio, dalle ore 15.

Un'edizione del Premio, questa del 2013, che, oltre a premiare la sensibilità di due grandi interpreti della cultura per l'infanzia come Emanuela Bussolati e Lucia Scuderi (rispettivamente miglior autrice completa e miglior illustratrice dell'anno), mette sotto i riflettori un ritorno al romanzo d'autore e alle storie di formazione che catturano il lettore anche per il piacere della pagina. Mentre sul fronte degli albi illustrati trionfano alcuni libri “ponte” che invitano gli adulti ad entrare in una relazione profonda con i più piccoli nella lettura ad alta voce, ma anche storie che offrono ai bambini spunti di riflessione per capire meglio se stessi in un gioco di specchi con gli altri e, ancora, libri in cui l’illustrazione si fa essa stessa narrazione.
L'elenco completo dei vincitori potete trovarla su www.premioandersen.it.

Emanuela Bussolati

Lucia Scuderi

martedì 21 maggio 2013

Maestri. 42. Henning Wagenbreth



 

"Ben e Robin sono amici d’infanzia. Due ragazzini terribili. I loro diversi destini però li separano nella giovinezza e così Robin intraprendente e selvaggio svolge onestamente la sua attività di temuto pirata nei Mari del sud, mentre Ben, untuoso e servile, fa carriera con l’inganno e il sotterfugio nel mondo della scienza, diventando un rispettato farmacista. Dopo molto tempo, il ritorno a casa di Robin per godersi il meritato riposo e le ricchezze accumulate dopo tanti faticosi arrembaggi, fa incrociare di nuovo le loro esistenze. In una gara tra i due su chi sia il più ricco e il più furbo Ben stravince; ora è un ricchissimo farmacista che ha fatto del furto con destrezza e dell’ipocrisia il suo stile di vita. Senza scrupoli, ogni giorno ha imbrogliato il prossimo suo. Dietro la sua rispettabilità da sempre si nasconde uno spietato impostore. In rima la loro storia, in rima l’esemplare punizione finale!"



Il Pirata e il farmacista* è una ballata di Robert Louis Stevenson (di cui abbiamo riportato l’abstract del volume recentemente edito in Italia da Orecchio Acerbo), illustrata da Henning Wagenbreth. L’artista tedesco si muove nei suoi consueti spazi bidimensionali, gonfi e saturi di colori e personaggi, essenziali e ridondanti come tavolette di ex voto. I personaggi si muovono a scatti, in una ieratica e meccanica imperturbabililità che ricorda certe tavole di Heinrich Hoffmann per lo Struwwelpeter, D’altronde questo è lo stile consolidato, la cifra stilistica riconoscibile e matura di Wagenbreth, dai manifesti teatrali degli anni '90 alle illustrazioni per i libri più recenti.

Le metafore di Henning ci erano sembrate perfette quaando si era trovato a illustrare, qualche anno fa, 1989**, dieci scrittori europei in ricordo del ventennale della caduta del muro di Berlino. Allora scrivevamo: “…I disegni di Wagenbreth sono insieme convergenti e divergenti da quell’idealità culturale e storica tedesca che li genera. Risentono fortemente dell’espressionismo e della critica sociale di Otto Dix e George Grosz, le figurine si muovono con scatti legnosi nelle due dimensioni piatte della carta, eliminano, come segno stilistico, la prospettiva e il volume, o almeno paiono non preoccuparsene.

Sono i disegni di un bambino disincantato che accumula mostri e indifferenze nelle sue tavole, che cerca un riscatto nell’uso ingordo del colore, che disegna i singoli elementi sempre nei loro rapporti irrisolti, in tutta evidenza disumani e lontani. Il mondo brut di Wagenbreth non concede tregua né spazio ad una visione consolatoria. Personaggi in buona misura tragici ed inquietanti in attesa forse che ci sia uno scalpello, da qualche parte, che possa abbattere anche quel loro, personale, muro d’angoscia.”




Era, quella, la stessa angoscia invadente e claustrofobica dei primi manifesti teatrali dell’artista tedesco, dove i riferimenti e i soggetti dark la fanno spesso da padroni e ci dipingono degli insiemi al tempo stesso narrativi e suggestivi, con un occhio di riguardo non solo al mondo dell’illustrazione ma anche a quello di certa grafica tedesca, quella di Heinz Edelmann, sopratutto, attenta sempre alla libertà di espressione del disegno, ma anche all’equilibrio disequilibrato (se mi si passa il termine) del lettering che, scomposto, graffiato, anarchico com’è, ci sembra completare gli annunci in maniera mirabile e precisa.






Uno di quei manifesti, Dracula, fece vincere a Wagenbreth il Festival dell’Affiche di Chaumont del 1996. La ragazza stesa nella sua tomba ha un occhio aperto e uno chiuso; è viva e morta, sveglia e addormentata. La lingua si sporge fuori dalle labbra saettando come quella di un serpente, o di un formichiere, o di un camaleonte. In quel manifesto (eravamo in quella giuria che gli assegnò il premio insieme a Alex Jordan, Wolker Pfuller, Tadanori Joko, Alain Weill) c’erano tutte le premesse e le promesse della grafica di Henning. Promesse, diremmo, nel tempo mantenute e superate.


* Robert Louis Stevenson, Il Pirata e il farmacista, illustrazioni di Henning Wagenbreth, Orecchio Acerbo, 2013, euro 23,00

** 1989, Dieci storie per attraversare i muriillustrazioni di Henning Wagenbreth, Orecchio Acerbo, 2009, euro 12,00

domenica 19 maggio 2013

Cani vecchi, pieni di sogni



Nella locandina ci sono già tutte le informazioni necessarie e quindi non staremo a ripeterci. D'altronde Giovanna Durì non ha bisogno di parole ma che guardiamo e godiamo delle sue immagini, tenere e appassionate, elegantemente malinconiche. Un appuntamento che Babele ci dà e che, assolutamente, non dobbiamo perdere.


Cane e  padrone
Andrea Rauch per Giovanna Durì

Via via che invecchio mi accorgo di somigliare sempre più al mio cane. Lo so che è un luogo comune (cane e padrone che finiscono per assumere aspetto e cadenze simili!), ma è proprio così e non so che farci. Il pelo si ingrigisce, biondo il mio nero il suo, le guancie tendono a cedere, come le palpebre, gli occhi diventano più acquosi e tristi. Ci si opacizza insieme, e insieme si affrontano i primi dolori articolari, le pigrizie e le difficoltà dell’età che, impietosa, avanza.
Cane e padrone cominciano a mostrare un disinteresse comune, sempre più evidente, per le creature dell’altro sesso (un’annusatina e via!), e le fermate per fare ‘un goccio d’acqua’, come si diceva una volta con ipocrita bon ton, si moltiplicano. Non si ‘marca’ più il territorio, come fanno i giovani: ci si libera soltanto la vescica e si dà respiro alla prostata.

I vecchi cani sono dunque così: teneri e acciaccati, indolenti e pigri, restii a muoversi con gesti bruschi. Ritardati nei movimenti zampettano guardinghi, con difficoltà, trascinando le zampe. Anche in questo somigliano spesso ai padroni: hanno assunto, per osmosi, aspetto e atteggiamento umano. 


Somigliano ai loro padroni anche i ‘vecchi cani’ che Giovanna Durì ha ritratto con affetto e partecipazione? Non lo so, ma mi vien fatto di crederlo, perché le storie che fanno corredo a questa serie di bellissimi ritratti sembrano quasi presupporlo. I cani di Giovanna sono quasi tutti stanchi e pigri, malandati e a fine percorso, ma non sembrano essersi arresi. Hanno ancora ricordo e voglia di gioventù, fantasie adolescenziali, pure attutite dagli acciacchi dell’età. Sono i cani che si vedono in giro per le città e per i paesi, che arrancano con zampe corte e pance cadenti, che sporgono scapole ossute, che lasciano cadere argentei fili di bava. Sono ‘vecchi cani’ che hanno visivamente bisogno, accanto a loro, di un vecchio padrone con cui dividere un tramonto più o meno sereno.

O forse no! Sono ‘vecchi cani’ che chiedono un bambino, un’adolescente che getti loro ancora la palla o il bastoncino e li stimoli a correre, ad annusare l’aria, a vivere e godere di quello che ogni giorno può portare. ‘Vecchi cani’ pieni ancora di sogni e di speranza.


Il catalogo che Giovanna Durì incontra sulla propria strada, e che ritrae, crediamo si accresca continuamente e aggiunga nuove storie giorno dopo giorno. Sono le storie di Cleo, di Ringhio, di Tina, di Furio: storie che magari loro non ci sanno raccontare ma che Giovanna registra con la sua matita e il suo pennello neri, con una sapienza narrativa e grafica che, pur conoscendola e apprezzandola da tanti anni, non le conoscevamo. Giovanna l’abbiamo sempre vista nel suo ruolo ufficiale di graphic designer attenta e competente, appassionata e precisa. Pensavamo progettasse bellissimi libri (quelli con Lorenzo Mattotti, ad esempio) e allestisse mostre affascinanti. Credevamo cioè che fosse completamente inserita in quella ‘cultura del progetto’ che organizza la visualità, ma che non sempre si spinge sul terreno dell’illustrazione e della pittura. I suoi ‘vecchi cani’ ci hanno sorpreso, colpito, lasciato senza fiato. Sono non solo dei bei disegni, sono brandelli di anima, momenti di riflessione e d’abbandono. Sono parte della vita. Erano, quei disegni e quelle storie, un ‘vizio privato’ di Giovanna Durì. Siamo fortunati che adesso siano diventati una sua ‘pubblica virtù’.

venerdì 17 maggio 2013

Meraviglie in camera

Qualche immagine in anteprima della mostra La Wunderkammer di Andrea Rauchche si inaugura stasera, sabato 18 maggio, alle ore 18.00, a San Giovanni Valdarno, presso la Casa Giovanni Mannozzi, in Corso Italia 105.
La mostra è a cura di Casa Masaccio, arte contemporanea.

Per informazioni: Tel. 055 9126283 Fax. 055 9123367
casamasaccio@comunesgv.it


Enrico Baj

Fabio De Poli

Emanuele Luzzati

Sergio Traquandi

Gianni Fanello

Gianni Fanello

Mimmo Di Cesare

Jean-Michel Folon

Milton Glaser

Andrea Rauch

Andrea Rauch, Milton Glaser

Andrea Rauch

Andrea Rauch

Andrea Rauch

Giampaolo Di Cocco

Leo Lionni

Ben Shahn
Guido Scarabottolo

Guido Scarabottolo

Andrea Rauch, Guido Scarabottolo