Linus sospende le pubblicazioni e la notizia non può che dispiacere, anche se attualmente la rivista era ben lontana dagli esordi, cui eravamo affezionati, e i quasi cinquant'anni che passano dal suo primo numero, ne avevano cambiato impostazione, senso, significato, importanza. Noi continuiamo a guardare con nostalgia a quelle prime annate dirette da Giovanni Gandini e Oreste Del Buono, quando Linus costituì una fonte importante per la nostra crescita, personale e collettiva.
Mentre non possiamo che augurarci che Charlie Brown e compagni riprendano presto la loro via di carta ripubblichiamo, come un esorcismo, il primo articolo del primo numero della rivista: un'analisi dei Peanuts discussa tra Umberto Eco, Oreste Del Buono ed Elio Vittorini. Analisi di un fumetto che era anche un approccio alla comprensione della società.Charlie Brown e i fumetti
Umberto Eco intervista
Elio Vittorini e Oreste Del Buono (aprile 1965)
Eco
Oggi stiamo discutendo di una cosa che riteniamo molto importante e seria, anche se apparentemente frivola: i fumetti di Charlie Brown. Vittorini, com'è che hai conosciuto Charlie Brown?
Vittorini
lo mi sono sempre interessato di fumetti da tempi lontanissimi, da quando ero ragazzo. Me ne occupavo anche ai tempi di « Politecnico » e ricordo che una volta ho pregato il nostro amico Del Buono di intervenire su certi fumetti americani parlandone non soltanto sotto il profilo sociologico, come succede di solito, ma anche sotto il profilo storico.
Eco
Di che cosa avete parlato a quell'epoca?
Del Buono
Un po' di tutto, facemmo persino dei fumetti dai Promessi Sposi.
Vittorini
Sì, avevamo anche cercato di servirci dei fumetti come mezzo di divulgazione letteraria ma si trattava più che altro di un divertimento per noi stessi. Del resto uno « spirito di fumetto » c'era anche nel tipo di impaginazione che usavo per il « Politecnico » dove poi c'era una appendice interamente dedicata ai fumetti: Trevisani vi curò la pubblicazione di Li'l Abner e di Barnaby, il ragazzo afflitto dalla psicanalisi. Le storie di Barnaby erano uscite durante la guerra e noi su « Politecnico » ne riportammo due o tre.
Eco
E Charlie Brown?
Vittorini
Charlie Brown è venuto per un accidente. Io mi facevo mandare dall'America, da amici che ho lì, i supplementi domenicali dove ci sono i fumetti, però questo non l'avevo notato perchè quelle persone non mi mandavano mai la pagina giusta. Finalmente una volta ho visto in mano a una ragazza della Mondadori, nel '58-59, un album ancora di quelli formato « forze di liberazione ». Incuriosito, me lo sono fatto dare e ricordo che passai il resto del pomeriggio mondadoriano a guardarmeli^ Da allora li ho cercati sempre.
Eco
Tu che ti sei occupato tra i primi in Italia della tradizione narrativa americana, come collochi Charlie Brown nella letteratura americana?
Vittorini
Bisognerebbe prima stabilire a che tipo di letteratura appartiene Schulz, ma comunque, senza andare nel difficile, io lo avvicinerei a Salinger, però con un interesse molto più ampio e secondo me molto più profondo.
Eco
Allora secondo te è più artista Schulz?
Vittorini
Certamente. Salinger, resta, se vogliamo, poeta: però non riesce ad essere il poeta di una società, rimane un prodotto in fondo molto letterario (da questo punto di vista Ring Lardner, l'effettivo creatore del racconto « hot », o meglio «hard-boiled», soddisfa meglio certe esigenze di impegno). Salinger è un «patetico » che evade nel mondo dell'infanzia la quale non è, per lui, rappresentativa del mondo degli adulti, della maturità come lo è per Schulz dove l'infanzia è il « signifiant », il veicolo di questo mondo completo che è l'uomo maturo, un po' come Johnny Hart (quello di B.C.) che rappresenta il mondo moderno attraverso l'età della pietra.
Eco
E tu Del Buono come vedi Charlie Brown?
Del Buono
lo sono un convertito a Charlie Brown. All'inizio non mi piaceva affatto. Intanto il mio interesse per i fumetti era diretto al genere avventuroso e Charlie Brown non mi divertiva. Trovavo persone che ridevano, leggendo Charlie Brown, e cercavo questa parte di comico senza trovarla. Però a un certo punto è avvenuta proprio una specie di rivelazione: ho scoperto che i fumetti di Charlie Brown sono assolutamente realistici. È avvenuta addirittura un'identificazione: Charlie Brown sono io. Da questo punto ho cominciato a capirlo. Altro che comico, era tragico, una tragedia continua. Ed ecco finalmente ne ho cominciato a ridere. Un fumetto come diagnosi, prognosi ed esorcismo.
Vittorini
E qui vorrei fare un'osservazione di carattere strutturale rispetto a quello che dice Del Buono: lui denuncia un'incomprensione rispetto ai primi contatti con le strips di Charlie Brown. Il primo contatto in effetti non soddisfa: una singola strip di Charlie Brown non dice niente, è una barzelletta; però, nella quantità, quando interviene anche la ripetizione di certi motivi, e le strips si succedono costituite, un po' come le frasi musicali, di invariabili e di variabili, di tre invariabili e due variabili l'una, di quattro invariabili e una variabile l'altra, si ha allora un « continuo » che approfondisce non solo numericamente il significato iniziale e lo snoda, lo articola, fino a farlo coincidere con tutti gli aspetti di una realtà data.
Eco
Questo mi pare importante perchè molte volte quando si cerca di spiegare a qualcuno, che non è abituato ai fumetti di Charlie Brown, che essi sono importanti, questo qualcuno tende a giudicarli così come giudicherebbe una pagina di romanzo, una pagina letteraria. Legge un brano isolato, due o tre pagine e non vi trova effettivamente nulla. Per giudicare i fumetti per quello che valgono realmente, bisogna tener conto proprio della loro tecnica di distribuzione e di consumo, così come certe epiche popolari di un tempo trovavano il loro sviluppo proprio attraverso il ripetersi delle avventure. È quindi impossibile giudicare il fumetto con i criteri che si applicano alla letteratura normale. Questo non significa che il fumetto non possa essere un prodotto letterario: solo che esso va giudicato in un «sistema » di lettura (e quindi anche di creazione) diverso.
Vittorini
Va giudicato a partire da un certo punto: cioè da un punto in cui ci accorgiamo che è esplosa, per cosi dire, una globalità; un punto in cui è avvenuto una specie di «scatto di totalità ». Ma vorrei cercare di spiegarmi meglio. L'unità espressiva, l'abbiamo detto, è la strip, la sequenza. Prima della strip non abbiamo che la vignetta, una vecchissima conoscenza giornalistica, costituita da una figura e una battuta che si completano a vicenda e che esauriscono in un colpo solo quello che hanno da dire. Con la strip abbiamo non solo una moltiplicazione della figura e della battuta, una serie di quattro cinque figure e di altrettante battute, ma abbiamo anche un elemento del tutto nuovo, l'elemento della successione temporale, il quale si manifesta in due ordini sovrapposti, uno analogico per le figure e uno logico per le parole, benché poi le parole abbiano la prevalenza e investano della loro logicità letteraria tutto l'insieme riducendo le figure a non avere che dei compiti stereotipi, di descrizione, di caratterizzazione, ecc. ecc. come dei semplici segni pittografici. È questo terzo elemento che fa della strip un'unità espressiva, perchè rende puramente paradigmatico il valore di ogni vignetta a sé, e assume in proprio (all'interno del proprio decorso) l'elaborazione del significato. Ma la strip non esprime che un frammento di mondo, un aspetto di personaggio, un momento di rapporto e anche se in se stessa può riuscire pregevole lo riuscirà solo a livello di massima, di illuminazione, di appunto, di episodio, di aneddoto. La qualità ch'essa rivela non va oltre i limiti della sua durata, è minima, è precaria, può essere banalissima o comunque non più che divertente, e occorre che i personaggi, i rapporti, gli oggetti in essa trattati ritornino in altre strips un certo numero di volte, sei volte, sette volte, nove volte, anche quindici, sedici volte, accumulando momento su momento e aspetto su aspetto, perchè noi si possa entrare nel merito qualitativo del fumetto. A furia di quantità è avvenuto quello che ho chiamato «scatto di totalità », cioè si è formato un significato secondo, che subito si riflette su ogni singola strip, anteriore o successiva, e la carica di importanza, la fa essere parte di un sistema, dandoci il senso di avere a che fare con tutto un mondo. Quando è Charlie Brown o B.C.; quando è un buon fumetto, si capisce...
Eco
E qui viene fuori allora una conclusione abbastanza strana; mentre abitualmente i fumetti sono delle produzioni narrative da consumare subito come si beve un caffè, giorno per giorno e da buttare poi via, nella misura invece in cui sono riusciti, essi sono opera importante e sono qualcosa che va riletto. Le storie di Charlie Brown sono nate per essere consumate ogni mattino: proprio perchè sono importanti vanno invece conservate e rilette dall'inizio. Solo così acquistano senso.
Del Buono
Mentre, a esempio, i fumetti di tipo Gordon, che per me, da ragazzo, eran stati educativi o diseducativi, in qualche modo formativi insomma, visti tutt'insieme nella riedizione odierna entrano in crisi, proprio per la ripetizione. La ripetizione di dati schemi: Gordon e il cattivo imperatore Ming, Gordon e le belle regine colorate che lo vogliono sposare, Gordon e il traditore della sua generosità, Gordon e i vari draghi sdentati, eccetera, è una ripetizione che denuncia l'assenza di altre invenzioni più valide. È uno scacco, contrabbandato nell'ansito breve delle puntate, messo in luce dalla raccolta delle strisce, una monotonia casuale, non una ripresa significativa.
Eco
La forza di Charlie Brown è che ripete sempre con ostinazione, ma con un senso del ritmo, qualche elemento fondamentale. Come certo jazz ripete con ostinazione una certa frase musicale. Potremo quindi concludere dicendo: il buon fumetto è quello in cui la ripetizione ha un significato e accresce la ricchezza della storia, il cattivo fumetto è quello in cui la ripetizione annoia e dimostra povertà d'invenzione.
Le copertine che illustrano l'articolo sono della prima annata della rivista, 1965.
Grazie !
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