Parlando di Ronald Searle, morto alla fine del 2011 all’età di 91 anni, non si può sfuggire al confronto con il suo, chiamiamolo così, alter ego americano, Saul Steinberg. Entrambi infatti si situano in quella terra di confine che sta tra il cartoon e la pittura, entrambi disinteressati a definire meglio la propria arte, entrambi occupati a scavare all’interno dei percorsi della grafica e della grafia (e dell’animo umano, sia detto per inciso) per estrarne i succhi più densi e vitali.
Fin qui il paragone (oltre a certi temi comuni di cui diremo) ma poi i due artisti imboccano strade diverse, più umorista e cordiale Searle, più astratto e meditativo Steinberg.
Ronald Searle si muove all’interno della grafica e della grafia, abbiamo detto, trasferendo la sua penna soavemente perfida in quel mondo mediano dove il segno, e la storia del segno, diventano humour e l’angoscia sorriso.
Così leggiamo le grandi, folgoranti, vignette del nostro, che sfrutta l’essenza formale dei fregi tipografici e delle lettere dell’alfabeto per costruire racconti di quotidiano e divertito disagio, con la mosca che lascia, cadendo, arabeschi barocchi nell’aria della stanza (e sulla carta del disegno, naturalmente), con le parole che cadono dal libro o assalgono l’incauto lettore, con le frecce che definiscono i percorsi ma, con la loro apoditticità, diventano anche segni di aggressione palese.
In queste vignette (ma ci viene stretto chiamarle così) c'è tutto il meglio di Searle, capace di condensare in un twist folgorante la sua riflessione ironica sul mondo e sulle cose, "... la concentrazione del tratto, il respiro lungo, la tenacia, la prodigiosa continuità di uno stato di grazia nel quale sarebbe vano e anche rozzo voler distinguere quanto è talento e quanto è cultura."*
Così lo scorrere del tempo prende la forma di un monumento a un Mickey Mouse invecchiato, quasi decrepito, che autocelebra il suo logoro appeal, o la forma di fogli di calendario che volano via senza che si riesca a trattenerli. È una riflessione con retrogusto amaro ma lieve, in punta di pennino, che non vuol far male ma solo lasciare una traccia, non più di una traccia, di tranquilla e sconsolata malinconia.
Ronald Searle è molto famoso per i suoi gatti, cui ha dedicato un libro e centinaia di disegni sparsi, copertine per il New Yorker e altro.
Anche qui si dovrà ricorrere al parallelo con Saul Steinberg per cui il gatto disegnato è metafora dell’uomo e, come nel finale orwelliano della Fattoria degli animali, indistinguibile da esso per atteggiamento, vizi, virtù e, alla fine, fisionomia.
I gatti di Searle invece restano comunque gatti e si aggirano nei suoi disegni con pregi e difetti sui generis. Sono grassi, aggressivi, pavidi, invadenti, colorati o in bianco nero; hanno lo sguardo furbo o impaurito, ammiccante o stralunato. Sorridono, i gatti di Searle, come quello di Alice e siamo certi che, quando scompaiono alla nostra vista, lasciano sempre una traccia del loro ghigno seducente.
* I disegni di Ronald Searle, Garzanti 1973.
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