giovedì 27 ottobre 2011

Favole sante

«C’era una volta una fonte così infetta che chiunque ne bevesse cadeva subito morto. Donato, salito sull’asino, andò fin lì per sanare l’acqua, ma un terribile drago sbucò fuori della fonte e avvinghiò con la sua coda le zampe dell’asino e si drizzò contro di lui...»

È l'inizio della storia di San Donato e della sua battaglia contro il Drago; una delle tante leggende che si raccontano nel libro di Andrea Rauch e Alessandro Savorelli, Storie Sante, uscito già da qualche mese per le nostre edizioni.

Storie mirabolanti e devote, avventure picare, racconti che si intrecciano tra religiosità, superstizione, magia, favola. Un repertorio strettamente connesso con la storia stessa della nostra civiltà.


La parodia sublime
Alessandro Savorelli

Dai santi siamo circondati, anche chi è tiepido in fatto di religione: le vie, le piazze, le chiese, il calendario, le feste, le immagini, l’arte. Santi antichi, santi moderni o modernissimi: i primi occhieggiano in posa da affreschi e sculture, dei secondi raccontano le cronache giornalistiche e televisive. Santi da sempre, o santi subito.

Maestro della Cappella Manassei, Martirio di Santa Margherita, Prato, Duomo, 1410 ca.

Ma chi furono? che sappiamo di loro? quando sono vissuti? cosa facevano davvero? come è nato il loro culto? chi ha narrato la loro vita? sono tutti rubricabili sotto la generica categoria della ‘santità’ o si possono distinguere in gruppi e categorie diverse? Per rispondere a questi interrogativi è nata da molti secoli una disciplina storica, l’agiografia (da aghios, ‘santo’ in greco): inizialmente incerta, poi sempre più raffinata nelle sue indagini. Uno dei risultati della ricerca storica sui santi, nel quale convergono gran parte degli studiosi, è che – al di là del dato di carattere religioso e di fede – spesso dei santi più antichi non sappiamo quasi niente: si sono formati su una lenta tradizione popolare, orale o scritta, su leggende o culti locali, ma senza una base storica e documentaria precisa. Per molti santi più antichi, che sono anche quelli più famosi, tutto ciò che si sa è spesso la loro “Vita” raccontata da un monaco-scrittore. Ma queste “Vite” più che di eventi storici parlano della mentalità di chi le ha scritte, del suo senso della fede, dei suoi bisogni e delle sue paure: in altri termini, della sua “visione del mondo”.

Gherardo Starnina, Tentazione di Sant'Antonio, Firenze, Santa Croce, 1385

La più famosa raccolta di queste “Vite” - che comprendono, come si suol dire la narrazione di “vita, morte e miracoli” - si deve al vescovo Jacopo da Varazze, vissuto nel Duecento. Dei santi più antichi - anche se può apparire sorprendente - ben poco viene messo in rilievo quanto alla loro statura morale e alla loro sapienza teologica. Molto spesso appaiono solo come protagonisti di avventure - nel senso stretto della parola - autori di motti di spirito, di miracoli spettacolari. Se la devozione popolare e il riconoscimento ufficiale della Chiesa ne ha fatto degli uomini eccezionali, ciò che si legge di loro rasenta il genere della fiaba, e ne ha la stessa funzione: rassicurare, allietare, educare.
Per convincersene basta leggere questa antologia di “vite”, raccontate con stile semplice - da fiaba appunto - ma rispettoso della narrazione originale e paragonarle con le fiabe classiche che si leggono ai bambini o coi miti classici. Si scoprono strane affinità letterarie: che San Giorgio è Perseo, San Cristoforo è Ercole, San Giuliano è Edipo, San Galgano è Artù (e la sua ‘spada nella roccia’), Santa Tecla è Dafne, Sant’Alessio è una specie di bizzarro Ulisse.

Paolo Uccello, San Giorgio e il Drago, Londra, National Gallery, 1456

Sano di Pietro, San Cristoforo, Siena, Pinacoteca Nazionale, 1450 ca.

Se il mito classico fornisce materiale alle vite dei santi, le situazioni e gli oggetti sono spesso proprio quelli delle fiabe: talismani, castelli e boschi fatati, draghi, orchi (camuffati da pagani), maghi, errori giudiziari, principesse malate o in pericolo, viaggi per mare, tesori nascosti.
La storia di San Tommaso inizia come una fiaba: «Si imbarcarono e giunsero in una città, nella quale il re stava celebrando le nozze della figlia...». Santa Marta, figlia di un re, giunge a Marsiglia, dove «c’era in un bosco un drago, mezzo animale, mezzo pesce, un po’ più grande di un bue, più lungo d’un cavallo, con denti affilati come spade ... nascosto nel fiume uccideva tutti coloro che lo attraversavano e faceva affondare le navi». Santa Cristina, come infinite principesse, è chiusa dal padre, desideroso di un buon partito, «in una torre con dodici ancelle»: «era bellissima e molti la chiedevano in moglie». San Patrizio, alla fine del ponte sospeso sull’abisso infernale trova «una meravigliosa città, scintillante d’oro e di pietre preziose». La vicenda di Sant’Eustachio comincia nel bosco: «Un giorno mentre era a caccia, incontrò un branco di cervi, fra i quali uno era particolarmente grande e bello»: un cervo parlante.

Bernardino Fungai, Martirio di San Clemente, City Art Gallery, York, 1500 ca.

Paragonare le “Vite” dei santi alle fiabe non è un’operazione illegittima: Ingmar Bergman riscrisse in un grande film (La fontana della vergine) una leggenda medievale svedese, sorta attorno al martirio di una santa locale, quasi come se si trattasse di Cappuccetto Rosso. Le “Vite” dei santi sono perciò in primo luogo “pezzi di medioevo fantastico”.
Non deve ingannare l’apparente contrasto tra l’invariabile happy end della fiaba e l’apparente sconfitta del martire, che conclude le sue tribolazioni (tra fantascienza e sadismo) con la morte: la morte del santo è la «parodia sublime» del trionfo dell’eroe delle fiabe, cioè la conquista del premio dell’immortalità e della gloria in un altro mondo: un altro modo di dire «vissero felici e contenti».
Come quella del bambino, la paura del fedele per il male e le sofferenze dell’aldiqua, si scioglie davanti alla promessa di un sogno e di una vita eternamente felice.


San Donato. Sputi al Drago

Fuor di città c’era una fonte talmente infetta che chiunque si provasse a bere un sorso d’acqua era sicuro di cader morto. Eppure era una sorgente che, fino a un punto, aveva dato acqua che tutti potevano bere e trovavano buonissima. Il vescovo Donato fu pregato di dire una preghiera per sanare l’acqua avvelenata. Il sant’uomo salì in groppa al suo asinello e andò alla fonte per benedirla.

Sano di Pietro, San Donato e il Drago, Abbadia Isola, Siena, 1471

Aveva appena cominciato il suo devoto offizio che dall’acqua torbida venne su un drago. Con la lunga coda avvinghiò le zampe dell’asino facendo cadere cavaliere e cavalcatura. La bestiaccia strillava e stringeva, l’asino ragliava, più che impaurito, terrorizzato.
Donato si rialzò alla svelta, si dette una spolverata alla veste e si avvicinò al drago e all’asino avvinghiati. La bestiaccia distolse per un attimo l’attenzione dall’asino, ormai mezzo morto di paura, e si voltò a fare gli occhiacci al santo. Donato gli sputò nella bocca aperta e il drago cadde morto.

Il santo vescovo pregò ancora finché la fonte non fu del tutto risanata e la polla non tornò limpida. Bevve una gran sorsata d’acqua, perché non c’è niente che faccia venir sete come una lotta con il drago, montò in groppa all’asino e tornò lemme lemme in città.


San Giacomo. Miracoli sulla via di Santiago

Una volta, verso l’anno mille, un uomo e suo figlio se ne vennero a Santiago dalla Germania. Si fermarono a dormire a Tolosa, in una locanda tenuta da un oste furfante. Il malvagio era solito nascondere nelle borse dei viaggiatori, che a naso gli sembravano i più sprovveduti, un qualche oggetto prezioso, poi, al mattino, accusava l’avventore di furto e lo portava in giudizio. Nei bagagli del malcapitato si trovava ovviamente l’oggetto rubato. Il tapino veniva condannato, impiccato, i suoi beni confiscati e assegnati al briccone per rifondere il danno. In questo modo quell’oste della malora ingrassava.

Primo Maestro di Lecceto, Miracolo dell'impiccato, Cuna, Siena, 1320 ca.

Fece così anche questa volta; le guardie trovarono nella sacca dei pellegrini una coppa d’argento, il figlio fu giudicato colpevole e impiccato per la gola. Il padre fu privato del suo e cacciato da Tolosa. Dovette continuare da solo il suo mesto pellegrinaggio per Santiago.
Ventisei giorni dopo, sulla via del ritorno, l’uomo volle ripassare da Tolosa per dare un’ultima occhiata al figlio, che era rimasto appeso per ammaestrare i cittadini e satollare i corvi.
Si avvicinò piangendo alla forca ma, muovendo appena la bocca per la corda che gli stringeva il collo, l’impiccato gli disse:
– Babbo caro non piangere! Non me la sono passata male fino ad ora. Il Santo Giacomo mi ha portato ogni giorno da mangiare e bere e mi ha tenuto su per i piedi perché non mi strozzassi.
Il padre corse in città a dare la notizia. Scesero dalla forca il giovane e impiccarono al suo posto l’oste. Non crediamo che San Giacomo abbia sostenuto per i piedi anche lui.


San Benedetto. Il monaco distratto
 
Benedetto da Norcia si ritirò in un eremo e la sua fama di santità si sparse ovunque. Presto molti fedeli si radunarono intorno a lui e Benedetto fece costruire dodici monasteri che accogliessero chi voleva seguire liberamente i suoi insegnamenti.

In uno dei dodici monasteri ci fu una volta un monacello che non riusciva a restare a lungo in preghiera. Tutti genuflessi e a capo chino e lui, dopo un attimo, rialzava la testa e cominciava a guardare uno stormo di uccellini che danzava nell’aria fuori dalla finestra. Oppure si incantava a contare i fili di una tela di ragno all’angolo della parete. O ancora cominciava a grattarsi con accanimento la punta del naso e a cercare con la lingua qualcosa rimasta all’interno della bocca tra le gote e i denti. Per quel fraticello tutto era buono per distrarsi dalla preghiera e il suo comportamento costituiva, va da sé, un pessimo esempio per gli altri monaci.

Sano di Pietro, San Benedetto e il monaco distratto, Abbadia Isola, Siena, 1471

Venne Benedetto e vide un diavoletto piccolo e nero, dal viso dispettoso, che tirava per l’orlo della tonaca il fraticello.
Il santo si mise in devota meditazione, pregò a lungo e si batté il petto in segno di mortificazione.
Quando si alzò, si avvicinò al monaco distratto (che in quel momento era perduto nella contemplazione del gatto del monastero che faceva non so cosa) e lo riempì di bastonate.
Il frate non disse una sola parola: si inginocchiò e prese a biascicare le sue orazioni con una lena che mai gli s’era vista.
Il diavoletto, nemmeno fossero toccate a lui le bastonate, scappò via dall’oratorio e non si fece mai più vedere.

Andrea Rauch, Alessandro Savorelli, Storie Sante, Prìncipi & Princípi, 2010, euro 28,00.
Con immagini della grande arte italiana del trecento e quattrocento.

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