Saul Steinberg nasce a Ramnicu Sarat (Romania) nel 1914. Nel 1933 arriva a Milano, dove si laurea in architettura al Politecnico, e pubblica i primi disegni sulla rivista satirica “Bertoldo”. Nel 1940, a causa delle leggi razziali, è costretto a lasciare l'Italia per gli Stati Uniti, dove per oltre sessant’anni lavorerà per il “New Yorker” e pubblicherà tutti i suoi libri. Muore nel 1999.
Due foto famose ci permettono di fare capolino all’interno della personalità di Saul Steinberg. Nella prima, scattata da Inge Morath nel 1959, l’artista è appoggiato a una sedia viennese. Indossa un panciotto a quadrettini e un golf scuro.
Sul volto ha una maschera, una specie di autoritratto schizzato su un sacchetto giallo di carta da pane. Nella parete dietro di lui occhieggiano, appesi, altri Steinberg di carta, con i baffi ben curati, gli occhiali neri tondeggianti, il naso dritto e aristocratico.
Nella seconda foto, molto più recente, l’artista, ormai anziano, tiene per mano un bambino. Entrambi sorridono (un sorriso appena appena accennato, un’ombra) al fotografo.
Il bambino altro non è se non una silhouette fotografica dello stesso Steinberg all’età di otto anni. L’artista vecchio stringe la mano all’artista bambino. Si è mai vista una metafora più esplicita e coinvolgente?
Esplicita perché Steinberg, con queste immagini di se stesso, sobrie ed essenziali fino a sfiorare la reticenza, ci dichiara che quello che vediamo è sicuramente ambiguo, quasi sicuramente falso.
Coinvolgente perché l’artista pare suggerire una nuova gerarchia orizzontale nell’ordine delle cose, che non ha la normale consequenzialità di causa e effetto, di prima e dopo, ma che trae piuttosto origine da una continuità stilistica in cui l’uomo deriva sempre da se stesso (è sempre uguale, in ogni momento, a se stesso) e il disegno, come in uno specchio o nel riflesso di una pozza d’acqua, torna a ricreare e inventare una vita dove non vi è né prima né dopo, né principio né fine.
Tutta l’opera grafica di Steinberg finisce quindi per ruotare intorno ai concetti chiave di ambiguità e di falsificazione. La linea, che è il momento essenziale della sua espressione artistica, diventa anche il momento di massima confusione. La mano che disegna la mano che disegna, a sua volta, la mano. Il tratto che traccia il tratto, le parole che diventano grafia, disegno, rappresentazione, percorso.
Nell’opera di Steinberg c’è, costante, il racconto autoreferenziale della grafica che celebra se stessa, del segno che disegna il suo racconto, della carta che genera, dalle sue pieghe o dalla sua quadrettatura, altre immagini di carta. Cosa è vero e cosa è falso, chi è il riflesso, chi l’ombra?
"Alle pareti della mia casa ci sono dei quadri, una specie di collezione fatta con scambi tra amici, con l’eccezione di un falso Mondrian che ho fatto io, come una specie di omaggio a Mondrian. Ho cercato di impersonarlo, di vedere come potrei sentirmi io, se fossi Mondrian... Ho provato a impossessarmi di Mondrian, a digerirlo. E c’è l’illusione che non sia completamente falso, perché l’ho fatto io."
La forza creatrice della linea è, insieme all’autentificazione del falso, uno dei motivi ispiratori più facilmente avvertibili nell’opera di Steinberg. All in line (1945) si intitola infatti il suo primo, importante libro, quello dove lo Steinberg filosofo del disegno e dell’esistenza inizia un suo percorso di liberazione dallo Steinberg cartoonist e pupazzettista. Lo Steinberg americano del “New Yorker” comincia qui ad allontanarsi dallo Steinberg italiano del “Bertoldo”.
La successiva raccolta di disegni, The art of living (1949), sarà un altro passo importante per la definizione di un linguaggio grafico nuovo. Con la pubblicazione di The Passport (1954) tutto il cammino è percorso e l’artista è ormai completamente immerso in quel mondo parallelo di tracce, carte bollate, quadrettature, macchie d’inchiostro, timbri e tamponi di cui abbiamo parlato.
E può sul serio credere che quella sia la realtà vera perché "... l’ho fatta io!"
"Di che cosa si compone Passport? – ci si chiede in nota al catalogo della mostra tenuta da Steinberg al Whitney Museum nel 1978 – Falsi documenti, diplomi, certificati, false fotografie (con falsi autografi), false incisioni, etichette false di vino, lettere, diari, manoscritti, falsi ex-voto. E poi impronte digitali, parate cittadine, cocktail parties, balletti, giocatori di biliardo e di base-ball, cowboys, gatti, cani che camminano eretti, donne a cavallo, suonatori di chitarra, automobili, locomotive, ponti, sfingi. Architettura vittoriana, liberty, baracche e grattacieli..."
Certo, The Passport è questo, ma c’è ancora da chiedersi se sia solo questo. Ci si può limitare a considerarlo il geniale inventario di un mondo visionario e parallelo? E se no, cos’altro?
Più che l’inventario di un mondo The Passport ci sembra essere l’invenzione di un mondo.
La catalogazione maniacale degli oggetti, le linee, i segni, gli uomini, le majorettes sgambettanti, l’architettura, il paesaggio, le opere d’arte rivisitate, i gatti, cani, coccodrilli, sono tutti in funzione della complessa cosmogonia che Steinberg va in quegli anni architettando. Elementi che hanno un loro posto preciso in ogni preciso disegno ma che non sono determinati e fissi per sempre. Contribuiscono, interagendo continuamente con tutti gli altri elementi, alla definizione degli spazi e al racconto totale della storia e delle storie. Spazio e storie che ci sembrano quasi disegnati con gli occhialini 3-D, quegli aggeggi rossi e verdi di cartone e cellophane che, a volte, negli anni Cinquanta venivano dati per ricreare, al cinema, una meravigliosa realtà tridimensionale. Guai a togliersi gli occhialini: la pellicola appariva immediatamente deforme, sfasata, fuori fuoco, incongrua.
I capitoli non dichiarati in cui The Passport idealmente si divide, mentre celebrano, si è detto, la complessiva utopia creatrice del disegno, ci dicono anche qualcosa del percorso dell’artista dentro se stesso, ci raccontano dei suoi sogni, degli incubi, di una realtà esterna nuova (l’America) da affrontare, di una identità diversa e antica (l’Europa) con cui fare i conti.
L’ancestrale europeo dell’artista si presenta fin dai primi disegni della raccolta, fitti di calligrafie belle e illeggibili, di firme che non rimandano a nessun nome e a nessun volto, di impronte digitali che certificano identità contraffatte. Il pennino graffia fogli di carta da computisteria o da musica dove si appoggiano forme che dalla carta stessa traggono origine e giustificazione; è il mondo, familiare per un ebreo rumeno figlio di un legatore di libri, della burocrazia mitteleuropea, lo stesso habitat polveroso di carta, inchiostro, timbri e scartafacci che abbiamo visto pesare su tanti impiegatucci letterari di Gogol, di Kafka, di Hrabal.
Dopo la breve collaborazione con il “Bertoldo” di Giovanni Mosca, Saul Steinberg aveva lasciato l’Italia, nel 1941, in seguito alle leggi razziali. Molti anni dopo, in uno dei rari momenti di riflessione autobiografica, l’artista ricorderà il clima surreale della sua persecuzione milanese, con la polizia fascista che cercava di scovarlo la mattina presto e con lui, quasi eroe da romanzo, che all’alba si aggirava per una Milano che cercava i suoi ritmi giornalieri di lavoro.
"Da qualche settimana mi svegliavo un po’ prima delle sei, e appena lavato saltavo in bicicletta e andavo per le strade come uno che va al lavoro. L’aria di Milano era ottima, allora, e la luce bellissima, e vedevo una cosa che non avevo mai visto, lo svegliarsi tranquillo e silenzioso di una città: gente a piedi, gente in bicicletta, tram, operai. Tornavo a casa dopo le sette e era assolutamente sicuro che se non erano venuti fino alle sette non venivano più (sabato e domenica non venivano mai). Facevo la prima colazione e tornavo a letto per dormire ancora un po’ e avevo la grande soddisfazione di tutta una giornata libera davanti a me; più che una vacanza, quasi una vita guadagnata."
Un kafkiano Processo rovesciato, surrealmente ma tangibilmente italiano.
Dopo un breve soggiorno (ma allora si chiamava confino) a Tortoreto degli Abruzzi, Steinberg, via Santo Domingo, sbarca a New York (con un passaporto falso, naturalmente) dove cercherà e troverà le prime collaborazioni grafiche. Il “New Yorker” costituirà da allora, 1942, per quasi sessant’anni la sua ragione di vita professionale e la principale palestra di sperimentazione artistica. Nella sua opera si potranno trovare ancora le persistenze della formazione europea ma il disegno – vero o falsificato – di Steinberg si nutre da allora anche delle grandi aperture della frontiera americana.
La vastità e la solitudine degli spazi, il gigantismo dell’architettura e della natura del nuovo mondo si incontreranno-scontreranno con la minuzia quasi maniacale con cui la penna dell’artista si muove sul foglio, in quell’infittirsi e rarefarsi continuo di linee, nel costante levitare e lievitare del segno.
I disegni americani di Steinberg sono notazioni puntuali di una realtà reinventata volta a volta e per sempre, dove l’uomo, anche in mezzo ad una folla chiassosa e frenetica, è sempre sconsolatamente solo.
Sono diari che archiviano una realtà dura, con tutto un suo carico rilevante di rassegnazione disincantata e amara:
"[...] non ci si illude, in America, che la vita sia una cosa romantica, una cosa che si possa recitare a soggetto. Qui la vita è veramente quella cosa penosa che dobbiamo sopportare. Questo è un paese stoico, che rende visibile in ogni momento il comune destino di dover sopportare la vita. Questo, insomma, è il paese dove si vive senza illusioni. Nessuno qui, cerca la solitudine. Del resto un uomo solo che bisogno ha di nascondersi? A chi si nasconde? "
L’uomo è solo nei disegni americani di Steinberg, ma accanto a lui passano decine di altri uomini soli che riempiono le città e il paesaggio, che affollano le strade e i marciapiedi, che guidano auto rombanti lungo le direttrici a perdita d’occhio di improbabili main streets. Sono figure che vanno e vengono, il cui solitario percorso si incontra, forse, o si scontra all’infinito; figure e figurette, raggrinzite nell’inchiostro, che vanno a occupare spazi e situazioni che l’occhio percepisce come una perfetta corale. Brandelli complessi per un grande affresco collettivo.
Di più: come ha notato una volta Franco Cavallone, questi disegni "[...] sono uno scrap-book del nostro tempo, un viaggio lungo la linea ininterrotta del disegno, che va tracciando, nello stesso tempo, il proprio itinerario e i paesaggi filosofici che attraversa". Il viaggio grafico di Steinberg permette infatti non solo (come in una famosissima copertina per il “New Yorker”) di attraversare l’America con un solo tratto di matita e di lanciare un occhio di là dal Pacifico verso il Giappone, la Russia e la Cina, ma anche di raggiungere le terre d’Utopia, con una mappatura precisa ed esauriente che ci indica, a esempio, come arrivare ad astra passando, naturalmente, per aspera (e purtroppo la via che conduce ad astra è niente più che una deviazione secondaria e la via principale del percorso porterà, inevitabilmente, ad stercus!).
Un disegno che, collegando la cosmogonia di Steinberg al nostro povero universo reale, si presenza come un ironico e sconsolato conte philosophique.
Via via che Steinberg procedeva negli anni alla creazione del suo mondo disegnato, sembrava quasi provvedere all’erezione contemporanea di una barriera che separasse nettamente le storie della vita dalle ragioni dell’arte.
Le notazioni biografiche si offrono quindi vaghe e nebulose. Qualche ricordo, nessun accadimento apparentemente rilevante. Poche parole, anch’esse distillate con parsimonia, sull’arte; quasi niente sulla grafica. Gli spiragli che sembravano aprirsi si richiudono immediamente. Sempre con discrezione, in silenzio. Mai un grido né un clamore.
Dio era troppo occupato nella creazione del mondo per potersi permettere il lusso di una propria biografia.
Diploma di ebreo
Steinberg si era laureato in architettura al Politecnico di Milano nel 1940.
In una riflessione di molti anni dopo (1985) ebbe a scrivere:
"Questo Diploma del 1940 è sopratutto un Diploma di discriminazione e pregiudizio (di “razza ebraica” ha questa funzione).
Ora: Sua Maestà è sparita quattro anni dopo e morì nel ‘47 in esilio, in Egitto. Il Regno d’Italia? Finito. E d’Albania? Che scherzo! Imperatore d’Etiopia? Che tempo crudele e imbecille. Tutto sparito. Il mio diploma stesso, stampato in finto Bodoni su pergamena finta si sta disintegrando e presto sparirà. Il titolo di dottore in architettura non l’ho mai usato e sono stato fortunato a non dover praticare l’architettura che per me è un supplizio.
Il Dottore in Architettura è sparito. È rimasto solo Saul, figlio di Morits, di razza ebraica. Infatti questo è un diploma di Ebreo."
Testi tratti da: Andrea Rauch, Il mondo come Design e rappresentazione, Usher Arte, 2009
Nessun commento:
Posta un commento