domenica 29 maggio 2011

Il Kamishibai di Simone e Kumi


Il kamishibai è una di quelle cose che sembrano nascere dal nulla: fino ad un momento prima non ci sono e nessuno, apparentemente, le ha mai sentite nominare; un momento dopo tutti sanno cosa sono e sembra non se ne possa più fare a meno.

Ma cos’è, dunque, il kamishibai? Sarà forse meglio far riferimento ad una tradizione nostrana che, coi tempi moderni, si è persa quasi del tutto ed è tenuta in vita, in animazione sospesa diremmo, da pochi ardimentosi: quella dei cantastorie (o contastorie come si usa dire adesso).
I cantastorie giravano per le piazze con il loro telo illustrato, chiamavano a raccolta la gente del paese con tromba o tamburo, salivano su un palco improvvisato e raccontavano (in prosa, in rima, cantando…) una storia mirabolante e fantastica che ci diceva di Angelica e Orlando, oppure del brigante Musolino, oppure del terribile terremoto di Messina. Una storia che facesse sognare, o informasse su famosi fatti di sangue o orribili sciagure.

Sesto Fiorentino: in attesa del kamishibai

I cantastorie fanno comunque parte di una tradizione che, soffiando sulla cenere, come avrebbe detto Levi-Strauss, fa cadere le sue scintille in tutto il mondo e quindi non sarà certo inaspettato se in Brasile si diffonde la letteratura de cordell o in Giappone, appunto, i kamishibai. Che sono, tornando alla domanda iniziale, dei teatrini in bicicletta, diffusi nelle campagne del Giappone fino ai primi anni del secondo dopoguerra: teatrini a fogli mobili illustrati che raccontavano mirabolanti storie tradizionali, fiabe antiche, fascinose e straordinarie. I kamashibaiya giravano per le campagne e i paesi con la loro bicicletta attrezzata, a volte accompagnavano i loro spettacoli con un organetto, e vendevano ai bambini raccolti davanti al teatrino e avvisati dell'inizio della recita dallo sbattere rituale dei bastoncini, i dolciumi che si erano portati dietro (una specie di biglietto d’ingresso, che dava diritto ai posti migliori).

Una forma di teatro molto immediata e popolare che fu spazzata via dall’avvento della televisione (il Kamishibai in casa!) e che sembra adesso tornare di gran moda soprattutto per l’uso didattico e socializzante che hanno cominciato a farne le scuole, prima in Giappone, poi, com’è ovvio, in ogni parte del mondo.

Doccinosan
Simone Frasca e Kumi Suzuki hanno visitato questa tradizione di un popolo lontano adattandola ad usum delphini (il delfino, nel caso, sono stati i bambini di Sesto Fiorentino, raccolti alla Biblioteca Ernesto Ragionieri) e operando una koinè di intenti che ha visto Simone introdurre lo spettacolo raccontando e disegnando la storia di Doccino, il gatto testimonial della Biblioteca che entra in tutte le storie, per poi lasciarlo dentro il teatrino di Suzuki che ha incominciato, con grazia tutta orientale, a raccontare la fiaba di Momotaro, il bambino che nasce da una pèsca e che, aiutato dai suoi dolcetti magici e dagli animali che raccoglie sulla sua strada, libera il Giappone dal predominio arrogante degli orchi.
Una favola antica che ricorda tutto il patrimonio fiabesco di ogni paese (dai Musicanti di Brema, al Pesce magico, a Prezzemolina…) e che è, abbastanza scopertamente, una delle matrici che usò anche Maurice Sendak per il suo Where the wild things are (che difatti Simone cita, doveroso atto di omaggio, in uno dei disegni del teatrino).


Kumi Suzuki e sua figlia con il loro teatrino

Cos’altro dire? Bella favola, bei disegni, commenti e risate, bambini felici e divertiti, adulti con un po’ di nostalgia per un modo di raccontare e far spettacolo che sembrava irrimediabilmente perduto. Giornata di sole.

Simone Frasca e il suo Momotaro

1 commento:

  1. bellissimo il kamishibai
    io lo faccio come laboratorio con i bambini delle scuole
    piace a tutte le età
    lo faccio di cartone per poi regalarlo alla classe (le maestre apprezzano)
    ma penso che me ne farò una versione lussuosa, di legno, da portarmi in giro.

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