lunedì 16 aprile 2012

Maestri 32. Shigeo Fukuda

Shigeo Fukuda, nato a Tokyo nel 1932 e morto nel 2009, è uno dei più conosciuti artisti e designer giapponesi. Creatore di manifesti e maestro d’illusione, Fukuda era stato ammesso nel 1987 nella Hall of Fame dell’Art Directors Club di New York ed era presente in tutte le grandi mostre internazionali di design. Impegnato nella Jagda, l’associazione dei grafici giapponesi era membro dell’Agi, Alliance Graphique Internationale

Shigeo Fukuda

No, Shigeo Fukuda pazzo non lo era per niente, anche se, guardando la sua opera, più di un dubbio ci poteva venire. “Fukuda c’est fou” era stato comunque il titolo di una sua personale europea, ordinata a Quimper da Alain Le Quernec nel 1991. E se anche Alain, che di Shigeo è stato amico di una vita, nutriva dei dubbi, qualche ragione doveva pur esserci!


Il mondo ideale e progettuale di Shigeo Fukuda, così giapponese tra i giapponesi, così occidentale tra gli occidentali, si era mosso sempre all’interno di una peculiare cifra stilistica che potremmo definire di “illusione ottica”. La percezione visiva, ci dice la sua opera, è parziale e soggettiva, i punti di vista variabili. Quello che sembra certo è sicuramente inganno, più sfumato e imprendibile quanto più netti ne sono, apparentemente, i contorni. All’interno infatti di una completa e dichiarata ambiguità di lettura, dove non ci sono mai certezze ma sempre nuovi dubbi, la tecnica di disegno di Shigeo, paradossalmente, era di straordinaria (ma anche qui solo apparente!) semplicità stilistica. Bianco e nero netto, colori piatti e decisi. Solo che il bianco e il nero (e i rossi e i gialli e i blu) compongono figure gestalticamente incerte, che salgono e scendono scale escheriane (incubo o sogno dell’architetto?), cani che si arrotolano a mordersi la coda, passi che tornano sui propri passi, piani che sezionano figure scomposte e ricomposte, ripetute e quasi ieratizzate a diventare topoi, quasi luogo comune iconico.



Nessuno stupore quindi che quei disegni si siano sempre accompagnati, nell’opera dell’artista, a una loro costruzione tridimensionale, con risultati percettivamente impossibili e anamorficamente spettacolari. Forbici a tre lame, forchette fuse insieme, coltelli con la lama a zig zag, cucchiai sovrapposti, tazzine con il manico all’interno.


Ogni oggetto, ci ricorda Shigeo, può essere scomposto e frantumato, perdere il senso e il senno, diventare una cosa del tutto inutile che conserva, della propria origine, solo il nome.
Le cose di Fukuda si muovono, dunque, in un luogo-non luogo in cui si sarebbe trovata a proprio agio Alice. È un paese delle meraviglie del paradosso e descrive alla perfezione l’angoscia tipica della modernità che sembra sempre cercare un ordine e che si avvia inevitabilmente verso il caos.


C’è un mucchio di rifiuti che cresce a dismisura, feticcio di una società dai consumi spasmodicamente isterici. L’ombra che quel mucchio di immondizia metallica proietta sulla parete è quella di una coppia che brinda. Qual è il messaggio? Quale l’immagine? Quale la sua ombra? È desolazione o speranza? La società produrrà solo il disordine o da quel disordine potrà avviarsi una palingenesi possibile?
Dai disegni, manifesti, design di Shigeo Fukuda si riflette l’immagine di un insieme che non sappiamo bene come decifrare perché ci resiste, non si lascia penetrare in maniera netta e univoca, non si offre all’analisi senza suscitare domande.



Questo però per quanto riguarda l’interpretazione. Perché della propria ambiguità Shigeo aveva sempre un’idea molto precisa. Quando proiettava in lezioni e convegni l’immagine della Gioconda formata da piccolissime bandierine delle nazioni che ricostruivano la visione ottica del capolavoro di Leonardo da Vinci, precisava sempre che quel manifesto era stato realizzato sistemando a mano, e una per una, tutte le bandierine: «…mica con il computer come oggi fanno tutti!»
Come dire che la propria visione ambigua, irrisolta, distorta della realtà bisogna costruirsela con la fatica e il lavoro, con le idee, mica solo con la tecnica o con un programma macintosh!


Al Museo d’arte di Hitabashi, un borgo satellite di Tokyo, durante la presentazione della mostra che quel museo aveva dedicato al lavoro di Leo Lionni, nel dicembre del 1996, Shigeo tenne la prolusione ufficiale.
Dopo le introduzioni dei notabili della città e del museo, tutte lungamente e prolissamente retoriche, molto formalmente giapponesi per quanto può capirne un europeo, Shigeo disse poche parole, poi invitò tutti al tavolo del dessert, perché, disse «… la birra si sta scaldando!»

Era così Shigeo Fukuda, folle e essenziale, precisamente magico e magicamente preciso.

Testo tratto da: Andrea Rauch, Il mondo come Design e rappresentazione, Usher arte, 2009.

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