Edward Gorey, nato nel 1925 e morto nel 2000, fu poeta, scrittore, illustratore e scenografo americano. Autore di culto per gli appassionati di noir ha illustrato i nonsense di Edward Lear e Il libro dei gatti tuttofare di Thomas Stearns Eliot. Le sue storie sono state pubblicate, in Italia, dapprima sul Linus di Giovanni Gandini, poi da Rizzoli e attualmente da Adelphi. Imperdibile la sua monografia Raffinati enigmi. L'arte di Edward Gorey, edita da Logos.
 |
Edward Gorey e i suoi gatti |
Sono convinto che nei miei disegni ognuno ci veda ciò che vuole, ma se si vuol trovare un significato si può. Ogni tanto arriva qualcuno che dice. ‘Ehi, ho capito di cosa parlava il tuo libro!’ E io rispondo: ‘Ah, sì?’ E ascolto le teorie più strane. In quel caso penso: ‘Se è questo che ci vuoi vedere, per me va bene’. (Edward Gorey)
Ho esitato molto prima di scrivere qualche riga su
Edward Gorey (non che non se lo meritasse, tutt’altro!) perché l’uomo e l'artista mi è sempre sembrato sfuggente, scivoloso, inafferrabile.
Ogni analisi che si può tentare viene immediatamente turbata e contraddetta perché
Gorey si sottrae alle normali classificazioni, si mimetizza quasi all’interno dei suoi disegni, che si staccano dal loro lettore per adagiarsi in un universo stranito di
nonsense espliciti e di ambiguità implicite.
Ma
Gorey, si dirà, è un disegnatore gotico, macabro,
noir se mai uno ve ne fu. Può darsi, anzi sicuramente, ma l’essenza del suo essere ‘macabro’ è la distanza, il distacco che stabilisce sempre nelle sue storie, dove accade tutto senza che una foglia si muova, senza che un’emozione si palesi, senza che una vibrazione dei sentimenti si agiti.
 |
Eward Gorey, La bambina sventurata, 1961 |
 |
Eward Gorey, La bambina sventurata, 1961 |
L’
esergo quindi ci sembra perfetto, perché nelle storie di
Edward Gorey si può vedere tutto e il contrario di tutto. Il tratteggiato a colpi di penna è dichiaratamente ottocentesco, vittoriano, come vittoriane sono le vesti che drappeggiano le signore o le pelliccione che intabarrano gli uomini, ma le storie si configurano spesso come un vero e atemporale teatro dell’assurdo, con situazioni incomprensibili, con personaggi atoni e sgrammaticati che agiscono quasi per abitudine e senza necessità. Le storie di
Gorey si situano nell’universo dell’impraticabilità e della distanza.
L’ospite sgradito arriva una sera al castello. È un uccello? Un pinguino? O cosa? Spiaccica il naso contro il muro e non si muove, finché gli abitanti, stufi, non se ne vanno a letto. Lo ritroveremo, quell’ospite incongruo, a rubare salviette, a gettare orologi nel lago, a mangiare piatti di coccio per colazione. Starà al castello per diciassette anni, senza una ragione o un fine. Lì rimane, silenzioso e quasi immobile, ieratico e stupefatto.
La storia è questa e dentro c’è tutto e niente; c’è quello che vogliano vederci e quello che ci ha messo
Gorey. Come possiamo interpretarla? Boh! Come vogliamo, perché la logica ci sfugge e corre via lontano. Ne sentiamo il fascino, ne intuiamo il divertimento e, perché no, la bellezza, ma l’ospite rimane per noi sempre misterioso e lontano.
 |
Eward Gorey, L'ospite sgradito, 1957 |
 |
Eward Gorey, L'ospite sgradito, 1957 |
 |
Eward Gorey, L'ospite sgradito, 1957 |
La parabola grafica di
Edward Gorey ci sembra, in parte, simile a quella di
George Herriman, il celebrato autore di
Krazy Kat, anche lui amato e osannato da legioni di ammiratori, ma in fondo raramente capito, tanto il suo
humour si mostrava rarefatto e distante.
Gorey, come
Herriman, non la butta mai ‘in caciara’, non concede nulla alla platea, si mostra ma non si concede. I drammi di cui le sue storie sono piene avvengono sempre fuori scena e la fissità dei protagonisti segnala una loro completa e quieta 'separazione'.
Gorey è un maestro che non poteva produrre allievi e anche l’unico che gli è stato spesso accostato,
Tim Burton, si muove su coordinate affatto diverse e i punti di contatto sono assai più rari delle prese di distanza. Come
Gorey anche
Burton indugia sui particolari macabri, a volte truculenti, surreali e insensati della violenza (soprattutto sui bambini e sui diversi) ma non riesce a staccarsene del tutto, non la pone, come riesce benissimo a
Edward Gorey, sul tavolo dell’entomologo per esaminarla freddamente e spassionatamente. Nel destino dei
Piccoli di Gashlycrumb, che segue in filastrocca le iniziali del loro nome (
M è per Maud/ il mare le fu boia, N é per Nevil/ morì dalla noia…) avvertiamo l’eleganza ma anche la distanza di un gioco intellettuale raffinato; nel
Bambino Ostrica di Burton, sentiamo finalmente vibrare anche una nota di partecipazione emotiva. Il dramma ci si avvicina e corriamo a prenderne parte.
 |
Eward Gorey, I piccoli di Gashlycrumb, 1963 |
Andrea grazie! È un servizio culturale questo tuo, preziosissimo poiché cade in una società distratta e di corta memoria. Abbracci!
RispondiElimina