lunedì 22 aprile 2013

La grafica al tempo della crisi

La salute della grafica, da un po' di tempo ormai, non è più tanto buona. Se si tratti di una febbriciattola stagionale o di un male incurabile non sapremmo dire (anche se la seconda ipotesi ci sembra più credibile). Il mestiere si è andato trasformando, le cause sono molte e non sempre facilmente individuabili: la trasformazione dei modi di vita associata, il cambiamento delle tecnologie e dei mezzi di produzione e promozione, la superficialità della domanda e dell'offerta, la crisi economica, la ristrettezza dei budget, l'autoreferenzialità di chi cerca di urlare e non riesce nemmeno a balbettare.
Tutto questo e altro ancora. Certo è che quel mestiere del grafico di cui ci parlava Albe Steiner sembra, in questo paese, aver sempre meno diritti di cittadinanza. 

Allora ci è d'obbligo pubblicare la lettera aperta che un grande maestro di quella che si era chiamata la cultura del progetto, Giancarlo Iliprandi, ha fatto circolare nello scorso mese di marzo. Un'analisi impietosa, a tutto tondo, che parte da fatterelli minuti e giunge subito al cuore del problema. La grafica che diventa grafia e finisce per essere gra gra, per dirla con Giancarlo. Una lettera triste e appassionata, da leggere, meditare e chiosare. Il grido di dolore, appassionato e disilluso, di una delle grandi personalità del graphic design. Di questo dovremmo ringraziare Giancarlo: della sua passione e del suo impegno. E come dice lui: Dai, non lasciamoci andare!  (a. r.)


Lettera aperta
Giancarlo Iliprandi

Gli anni passano veloci, divorando il tempo che mi rimane. Diventando vecchio non ho conquistato saggezza. Migliorando solo inquietudini ed impazienza. Guardo (con affetto e rabbia) a questa cosiddetta progettazione grafica, che va facendosi sempre meno progetto. Magari non è più neppure grafica, solo grafia. Sino a ridursi al gra gra, al gracchiare confuso di corvi beffeggianti.
Sono anni, da quando ancora insegnavo a Urbino, che vedo il nostro impegno tramutarsi in chissà quali miserabili mestieri. Non certo quello che praticavamo. "Il mestiere del grafico" tanto per citare un titolo che suonava rivendicazione proletaria.
Ma era, anzitutto, la bandiera di una dignità professionale.

     Quanto costa un marchio?

La mia associata, e compagna, Monica Fumagalli, ha scritto poco tempo fa, su Facebook e poi su Linkedin, "Ho scoperto questo sito dove chi ha bisogno di un marchio, sito, ecc, inserisce il brief con il budget previsto e ottiene proposte dalla comunità dei professionisti iscritti. Peccato che in media la cifra offerta per un logo sia di 250 euro..." Starbytes.it.

Starbytes è una community di professionisti ICT e designers freelance alla quale affidare il proprio progetto. Cosa puoi ottenere? Ecco alcuni esempi: logo e grafica aziendale, sviluppo software, sviluppo mobile app, traduzioni.

Segue interessante dibattito cui parteciperanno, con alterno interesse: Graziano Cubeddu, Stefano Giurin, Graziano Cubeddu, Piergiorgio Capozza, Graziano Cubeddu, Piergiorgio Capozza, Stefano Giurin, Francesca Tosin, Giuseppe Perrone, Giancarlo Dell'Antonia, Federica Zamprotta, Vanessa Vidale, Davide Nicoletti, Rossano Fabrizio, Alessandra Federica Bozzoli, Davide Nicoletti, Giovanni Malgherini, Graziano Cubeddu, Piergiorgio Capozza, Romeo Traversa, Vanessa Vidale, Romeo Traversa, Romeo Traversa, Davide Nicoletti, Romeo Traversa, Giancarlo Ghezzi, Romeo Traversa, Alessandra Federica Bozzoli, Romeo Traversa, Mirella Di Biagio, Stefano Giurin, Romeo Traversa, Davide Nicoletti, Mirella Di Biagio, Romeo Traversa, Piergiorgio Capozza, Mirella Di Biagio, Vanessa Vidale, Andrea Di Nardo, Davide Nicoletti, Andrea Di Nardo, Piergiorgio Capozza.
Poi confesso di aver smesso di leggere.



Perché ho messo tutti quei nomi, ripetendoli così come si ripetevano?
Per dare l'idea del dibattito, della forma più che del contenuto.
Naturalmente si contestava, si stigmatizzava, si agitava lo spettro della crisi, ci si indignava, si scrollavano le spalle. Ognuno diceva la sua, obiettava, aderiva, negava, controbatteva, alzava le spalle, aggrottava la fronte, sbatteva la porta. Insomma l'argomento aveva fatto presa. Si leggevano tanti come? Quando? Dove? Perché e così via e così via. Ma non ho sentito individuare veri motivi di declino. Nè tempi, nè luoghi, nè modalità. Scarse dietrologie, constatazione di uno status quo. Mai proposte futuribili.
Ecco quello che più preoccupa, una sorta di atonia. Indignazione rassegnata oppure rassegnazione indignata? Il recipiente dorato che conteneva l'elisir di lunga vita si è ridotto a fare da colapasta. Ognuno pare abbia solo due mani, dieci dita, con le quali mai riuscirebbe a tappare quei cento buchini. Provarci almeno?
Usare un asciugamano? Versare nel colapasta una palettata di cemento? Spaccare il recipiente dorato in mille pezzi? Calpestare la memoria?

La prima anomalia che salta all'occhio è la mancanza di altri nomi. Personaggi storici oramai mummificati, docenti di chiara fama o di fama oscura, leoni tuttoazzannanti. Fighetti di moda, funzionari istituzionali, associati un poco dissociantesi. Insomma la vera fauna del bosco, dove si cerca il grasso che cola. La quale probabilmente, aborre sentir nominare il sottobosco. Dove imputridiscono i tronchi delle sequoie abbattute dal fulmine.

     La lebbra che morde le orecchie...

Mi sembra che la situazione AIAP sia migliore della situazione ADI. Però non tanto. Non così tanto da poter dire "l'ADI sta andando a puttane. Peggio per loro".
La lebbra che ci comincia a mordere le orecchie non riguarda solo il design, riguarda tutta la cultura.
Cosicchè mi tornano sempre in mente le solite domande. Sì, va bene, compito del design sarebbe migliorare la qualità della vita, ma chi dovrebbe migliorare la qualità del design? Oppure, ancora più semplice, "la bellezza salverà il mondo". Ma chi salverà la bellezza?

Le strade sono intasate di maratone inutili, i marciapiedi traboccano di auto, i muri sono stati lordati da finte firme, la cacca dei cani si appiccica alle suole delle scarpe, le polveri sottili incrostano i polmoni. Ognuno fa il cazzo che vuole dentro e fuori di casa. Il signor ognuno siamo noi, anche noi che ci siamo autodefiniti grafici, progettisti, comunicatori visivi, scordando a casa quello che chiamavamo "impegno".
Perché questo pareva essere il motivo per il quale avevamo smesso di fare i pittori da cavalletto. L'impegno, verso cosa? Verso la società o, con maggior ampiezza, verso la cultura.
Così molti di noi hanno creduto di fare non solo un mestiere bensì, anzitutto, cultura.
Quindi essere parte di una attività collettiva (stavo per scrivere di un movimento, ma il termine non è più vergine). Eravamo partecipi di un sentire collettivo, di una cultura trasversale.



     Né servi, né padroni...

Così mi sembra ragionassero i vari Tovaglia, Noorda, Vignelli. E gli amici di prima, Steiner, Boggeri, Munari, e gli amici più giovani come D'Ambrosio-Grimaldi, Rauch, Dolcini e così via.
Discutevano di queste cose, spesso, però, in ogni caso, agivano in questo modo. Fornendo ai loro committenti non solo un servizio bensì un contributo. Come qualsiasi persona libera potevano usare il motto "né servi, né padroni". E chiedo scusa ai libertari veri.
Poi sono venute certe agenzie multinazionali, è subentrato il marketing, è arrivata una malintesa globalizzazione. Dal marketing al mercato il passo è stato breve. Si ragionava in denaro, non in concetti. Qualcuno ha scritto che oramai la società dei committenti richiedeva solo due precise figure. Prestatori di servizi oppure creatori di spettacoli.
Anche bravi, naturalmente, però apocalittici o integrati. Gli altri venivano messi da parte perché erano degli intellettuali, e gli intellettuali per la società dei consumi, per la Milano da bere, per l'industria dell'entertainement, erano solo dei rompicoglioni.

Così non stupiamoci se sul web compaiono annunci di organizzazioni, che sfruttano la congiuntura economica per reclutare mercenari in cerca di sopravvivenza.
Noi abbiamo lasciato che crescessero queste scuole dove, a carissimo prezzo, si impara a smanettare. Noi tolleriamo che i bar si riempiano di slot machine che illudono guadagni facili. Noi scopriamo tra gli spot televisivi offerte di organizzazioni che insegnano come farsi il sito in casa. La progettazione grafica non è più progettazione, forse neppure un mestiere che richiede competenze. È oramai un "do it yourself" un "fatevelo da soli". Un parafarmaco che non richiede ricetta, quindi la figura del medico può dirsi assente e anche le farmacie possono diventare parafarmacie. E chi ha sempre creduto di essere riconosciuto professionista allineandosi con avvocati, notai, ingegneri, geometri, medici, infermieri? Professione non riconosciuta, sei un abusivo.

     La storia vive di ignoranza

Dunque nessun stupore che lo studio Iliprandi Associati sia privo di lavoro, e di incarichi, da circa due anni. Si stupiscono solo certi amici che coltivano una, immeritata, incondizionata ammirazione, per il mio passato. "Come è possibile, dicono, che un "maestro" (termine aborrito) venga dimenticato?"
È possibile, e tu lo sai bene. In un attimo si viene accantonati, così le nostre opere, quelle che ci consentivano di cantare con la Mannoia "La storia siamo noi".
Perché la storia vive di ignoranza, di opportunismi, di puttanate come un qualsivoglia personaggio. Come un qualsiasi guitto la storia è vulnerabile, mortificabile, plagiabile, adattabile a qualsiasi compromesso. Noi dovremmo, zitti e buoni, rinchiuderci nel bunker dei nostri archivi e, ben protetti dalla nostra coscienza, dovremmo trovare il tempo per documentare la decadenza. E il coraggio di scriverne agli altri, soprattutto a quelli che hanno assecondato il decadimento, che hanno partecipato alla sagra dell'ignoranza, che hanno dimenticato che la cultura non si improvvisa, ma si fa.
Non ci sono scorciatoie, o la fai o non la fai. E se non la fai devi perlomeno ammetterlo senza accampare scuse. Ammettere che la grafica italiana è morta per eccesso di faciloneria. Ammettere la superficialità. Ammettere di essersi accorti di questa atonia, di questo senso di disinteresse generale, di questo sfilacciarsi del tessuto culturale. Di questa aurea mediocritas. Di aver notato il lento inesorabile progredire dalla banalità alla mediocrità. Senza prendere in considerazione una opposizione qualsiasi. Perché "tanto è inutile sbattersi per migliorare", tanto le cose stanno così.
Perché comunque loro si accontentano e chi si contenta gode. Perché, in ogni caso, loro hanno un impiego retribuito, quindi non spetta a loro affrontare il problema del precariato. perché è colpa solo della politica.
Perché "nunc est bibendum" con quel che segue. "Quod sit futurum cras fuge quaerere?" Un parco di tenere candide pecorelle con qualche raro caprone scornato? O soltanto una coniglieria? Vedete voi.
Certo non spetta a voi respingere i giudizi ironici sulla nostra abituale assenza dal teatro internazionale. Da anni sia Aiap che Adi sono avari di contributi ai congressi e alle assemblee generali di Icsid e Icograda. Mancano i soldi per il biglietto aereo, manca la giusta conoscenza della lingua inglese. O, più probabilmente, mancano idee che non siano banali.



     Banalità

A proposito di banalità spero abbiano tutti apprezzato il simbolo con il quale Monti ha presentato la sua salita in campo.
Ma, naturalmente, la cultura non era parte integrante della Agenda Monti. Quindi avanti con questo nastrino persino un poco berluschino. Il Monti sconfitto ammette di essere stato penalizzato dalla incomprensione del suo poco comprensibile programma. Neppure lo sfiora il dubbio di avere cannato la comunicazione. Perché per lui la comunicazione, la comunicazione visiva, il design della comunicazione visiva, sono entità ignote, quindi inesistenti. Del resto leggendo la famosa agenda ci coglie il dubbio che tante, anzi troppe, siano le entità per lui inesistenti. Supponiamo, bonariamente, per colpa della età avanzata.

Del resto chi maneggia solo cartamoneta non può sapere che anche quelle banconote sono il prodotto di un progetto grafico. Né ricordarsi i concorsi per la definizione visiva dell'Euro. Nato probabilmente sotto una foglia di cavolo, come quelle migliaia di bambini che nascono ogni giorno. Ma dei quali non frega niente a nessuno pure se, bene o male, fanno parte della storia.
Piuttosto male, direi. Ma la storia preferisce l'ovvio, il banale, l'opportuno. Anche quando si rifugia nella cronaca.

     Rinascita per la Rinascente?

Qualche tempo fa mi è capitato, un sabato, di leggere un articolo della più importante cronista di moda del più importante quotidiano italiano. Quello che tutti siamo costretti ad acquistare per restare aggiornati sui necrologi.
Non era un vero articolo, più un pubbliredazionale mascherato. Insomma una marchetta. Naturalmente la marchetta si spendeva in sperticati elogi per l'aspetto attuale di quel grande magazzino milanese che il sommo Vate aveva allora ribattezzato la Rinascente. Rinato nuovamente, oggi, per mano dei nuovi proprietari orientali che, opportunamente, hanno pensato di destinarlo al lusso. Data la rilevanza socioeconomica del lusso nel contesto quotidiano della milanesità.
La cronista, della quale preferisco dimenticare nome e cognome, si dilunga nella accurata lode del rinnovato aspetto "nouveau riche". Fingendo di ignorare l'importanza storico-culturale di un'impresa che sotto la guida Borletti-Brustio era diventata il modello, estetico, di una società non ancora deformata dall'edonismo Reaganiano. Per rievocare i fasti passati cita, come sperimentatori Gio Ponti e Bruno Munari con il contributo manuale del vetrinista Giorgio Armani. Tre cazzate sparate su così poche righe sono un bel record, ci fanno maggiormente rimpiangere la prematura scomparsa di Laura Dubini. Giornalista di altra scuola. Del resto non si può nominare il fondatore, Senatore Borletti scrivendone il nome con una esse minuscola. Quasi che uscisse da Palazzo Madama.

Il quotidiano milanese sta attraversando un brutto momento e questo giustifica, almeno in parte, certe insufficienze. Alla Domenica ci regala, con la copia necrologica, un supplemento letterario, titolato "La lettura". Vecchia gloriosa testata sulla quale spargere qualche lacrima. Si tratta di un giornalino corretto e piacevole che accoglie sulle sue pagine il meglio, o così pare, di certa critica letteraria. Una specie di palestra sulla quale varrebbe la pena di dilungarsi. Perché, come ogni palestra, rivela un interessante campionario umano. C'è il culturista più o meno tatuato, il piacione sempre ammiccante, il ragioniere che deve buttar giù la pancetta, l'anziano che sa come tenersi in forma e così via. Ma non sono questi ritratti a turbarmi bensì le copertine che avvolgono il fascicolo le quali, per venire considerate vere copertine, dovrebbero essere un vestito su misura, se non, quantomeno, una vestaglia indossata a caso, scelta per via del colore.
Mentre queste sono soltanto la inevitabile collezione di quadri, segni, disegni, foto, collages o schizzi e sghiribizzi, capitati assieme per caso. Oppure per compiacere questo o quel letterato, se non qualche amico degli amici. Godendo la presunzione di una totale libertà.
Beh, guarda caso, siamo arrivati a settanta copertine, ma tra queste settanta immagini non esiste un segno grafico che ricordi il cosiddetto graphic design. Questa non è una protesta, sia ben chiaro, è una semplice constatazione che si riallaccia alle precedenti.
È l'esempio più chiaro che la progettazione grafica in Italia non esiste più da un pezzo. Ma se anche esistesse non verrebbe certo innalzata al livello culturale dei blabla letterari. Perché, figlia della banalità imperante, è la cartina al tornasole della irrilevanza del nostro lavoro.



     Art direction e art director

Doverosamente porterò con me, al Politecnico, questi esempi di come non dovrebbe essere una copertina, di cosa dovrebbe saper anticipare o riassumere, della sua funzione comunicativa. Un pretesto per citare e discutere la famosa dichiarazione "form follows function" ritenuta asse portante del design anglosassone.
Poi troverò il tempo per parlare anche dell'art direction e dell'art director. Fondamentalmente un giornalista e un giornalista che scrive bene, con particolare attenzione alla fotografia e, persino, con una ottima conoscenza della storia e della critica della fotografia.
I profani credono di sapere che chi impagina un giornale provenga da un processo didattico prevalentemente visuale. Che abbia studiato architettura, piuttosto che tipografia, oppure analisi semantica. Questo è, anzitutto, un simpatico ragazzo costretto nelle gabbie di impaginazione, responsabile, per mestiere, dell'aspetto grafico di un grande quotidiano. Lavoro snervante che lascia poco tempo alla riflessione ed alla frequentazione di amici che magari dissertano sui problemi della progettazione grafica. Il suo progettare nasce ogni pomeriggio ed è già morto la mattina dopo, quando il quotidiano entra in edicola.




     TDM5: un'occasione mancata

Un altro "accadimento" vorrei discutere con gli studenti, pur trattandosi di un evento concluso. Di una mostra smontata, di una occasione mancata. Non mancata nel senso che l'hanno persa gli allievi di questo semestre, iniziato il 4 marzo 2013, parlo come occasione mancata perché poteva essere finalmente una buona occasione per mettere in mostra la progettazione grafica italiana.
Mi riferisco naturalmente a TDM5, cioè la quinta edizione del famoso design museum.
Una operazione complessa, ma non certo difficile, affidata a nientepopodimeno che a tre curatori. Non si capisce bene se nell'intento di usarli come stimolo concorrenziale oppure come sorveglianti resi necessari da una sotterranea sfiducia nei riguardi delle scelte individuali. Sono corse molte voci mentre scarse sono apparse le rivelazioni sui giochi di back-stage.

Uno dei curatori è venuto di persona nel mio studio a chiedere dei pezzi da mettere in mostra. Naturalmente si trattava di una selezione particolarmente poco significativa. Neppure discutibile perché il curatore sosteneva di basare la sua ricerca su pezzi poco noti al pubblico. In modo di ottenere una mostra nuova o quantomeno caratterizzata dall'insolito.
Senza spiegare, naturalmente, a cosa potesse servire questo museo dell'insolito. Così oltre all'insolito, che meglio sarebbe servito se inedito, richiedeva altri pezzi i quali, con tutta la migliore buona volontà non sarebbero mai riusciti a tracciare un profilo professionale.
Venni anche a sapere, da voci di palazzo, che dell'allestimento avrebbe dovuto essere responsabile un famosissimo designer intransigente.
Che, forse perché realmente ammalato oppure finto malato, avendo fiutato odore di pressapochismo, aveva rinunciato all'incarico. Così l'incarico passò nelle mani del famoso scenografo designer. Che fece del suo meglio per riempire lo spazio di immaginari libroni aperti, le paginone dei quali erano destinate a contenere le paginette esemplari di storici calepini.
Con evidente sagacia le pagine più grandi erano state riservate a certi esperimenti tipografici di formato A6 mentre appositi pannelli, di ridotte dimensioni, avrebbero dovuto esibire poster formato Oliviero Toscani, metri 6x3.
Fortunatamente didascalie tono su tono, volutamente illeggibili, confondevano i non addetti ai lavori, prevenendo obiezioni.

Grande successo di pubblico e stampa? Probabilmente sì, anche se non si usa gratificare i volenterosi prestatori con una qualsiasi rassegna stampa. Per pudore, forse.
Il pubblico degli esperti si era quasi subito diviso in due gruppi. Quelli che ne parlavano male e quelli che tacevano, scantonando veloci, per non imbattersi in qualche responsabile in cerca di complimenti.
I commenti più costruttivamente critici mi sono arrivati da colleghi stranieri che, attirati dalla pubblicità, avevano pagato il biglietto per tuffarsi in quella xilorrea odorante di vernici.
Del resto TDM5 non ha goduto di una reale promozione. Nessun incontro, seminario o workshop, né, tantomeno, un convegno esplicativo, chiarificatore, se non glorificante. Non se ne è parlato all'ADI, non se ne è trattato all'AIAP. Non si sono udite eco vaste al Corso di Laurea in Design di Comunicazione Visiva. Nella scuola di Design al Politecnico. Il Museum della Grafica italiana è stato bellamente ignorato.  Perché non valeva la pena di fare una piccola visita a una raccolta banale? Oppure perché la progettazione grafica non merita, in ogni caso, un incontro? Ma allora perché spendere tempo e denaro per organizzare una mostramuseo? Mi torna in mente, per la centesima volta, quel coro del Marat/Sade (atto 2, scena 30) "What's the point of a revolution, without general copulation, copulation, copulation?"



Ci si chiede perché mai l'allestimento non sia stato affidato ai bravi Left Loft curatori del catalogo. Questi Left Loft particolarmente freschi e affettuosi, quando gestivano il Ministero della Grafica ora se la tirano un po'. Più che giustificati dai loro viaggi a niuiorch. Oppure al bravissimo Italo Lupi e all'altrettanto bravo Bruno Monguzzi, purtroppo considerati oramai troppo vecchi.
Si nota in ogni caso una connotazione generazionale. Vi sono momenti grafici che affiorano qua e là dal mare delle ripetizioni, senza però che si possano unire a formare la testa di ariete di certi movimenti. Si ignora lo sforzo collettivo di quei gruppi che si sono trovati sulle spalle il compito di definire il graphic design. Osteggiati a monte dai tardi epigoni di Toulouse Lautrec mentre a valle i torrenti del product design chiudevano loro la strada. Gruppi, o meglio movimenti, di cui non si trova identità nel minestrone generico. Naturalmente i volenterosi curatori erano bimbetti, o forse non erano ancora nati quando la Rinascente fondava il Premio Compasso d'Oro per l'estetica del prodotto. Né quando i Castiglioni, per la storia A&PG Castiglioni accoglievano nel loro studio, quasi fosse una bottega rinascimentale, i capitani di ventura più combattivi. Forse qualcuno di loro avrà sentito narrare, più tardi, la storia del corso per assistenti grafici alla Società Umanitaria. "I sergenti della grafica" come li definiva Albe Steiner. O storie più recenti legate alla fondazione dell'Art Directors Club Milano ed alla partecipazione alla Prima Biennale di Metodologia Globale della Progettazione svoltasi a Rimini. Ecco si era negli anni Settanta, la Fonderia Nebiolo dava il via al più interessante esperimento di design di gruppo. Di Team Work. Qui ci coglie il sospetto che certe esclusioni siano volute. Probabilmente mosse dall'invidia, o dal rancore, per non essere stati invitati al pranzo di nozze. Poi subentra questa serie di gap generazionali. Si ripescano i cimeli dei tempi lontani, si ignorano le terre di mezzo. Si glorifica il moderno, ignorando ciò che è contemporaneo, e ancora di più, ciò che sarà futuro "Quod sid futurum cras ecc.ecc."

     Chi ha dato, ha dato...

Del resto, durante un importante convegno a Urbino abbiamo ascoltato, con malcelato stupore, un giovane, bravissimo grafico dell'alleanza, riassumere la storia dell'ISIA. Citando Albe più per sentito dire, che per conoscenza diretta e ignorando i contributi reali di due designer milanesi. Dieci anni di impegno culturale non retribuito. Riassunto in una motivata lettera di dimissioni alla quale spettava almeno una risposta. Non tanto per correttezza istituzionale, ma più banalmente per buona educazione. Ma, si sa, eravamo solo due grafici e l'ignoranza attuale è forse connotata da un arcaico campanilismo. oppure, più verosimilmente da un famoso gap generazionale. I brontosauri sono una specie estinta. "Chi ha dato, ha dato, ha dato, chi ha avuto, avuto, avuto, scordammoce o passato, simme Napole paesà"
Per fortuna abbiamo questo catalogo, opera egregia dei Left Loft e di Maurizio Corraini. Un bellissimo librone, non certo un pocket, pesante da maneggiare, costoso da acquistare. Che riscatta la banalità della mostra, del cosiddetto museo, pur non riuscendo a raggiungere la chiarezza comunicativa di "Visual Design 33/83. Cinquant'anni di comunicazione visiva in Italia". Un volume nato senza compiacimenti pseudo-letterari che rimane ancora, dopo trent'anni, la più importante documentazione della nostra avventura visiva.
Sarebbe bastato aggiornarlo, operazione che avrebbe evitato l'epiteto di banalizzatore a un mio caro amico. Soprannome che gli resterà appiccicato addosso per anni come i vari "il grande", "il conquistador", "il comandante" e così via. Augurando che si riprenda presto.

Chissà magari leggendo, per caso, questo sfogo cutaneo, che mi infastidisce con i suoi pruriti, qualcuno capirà di che morte sta morendo la progettazione grafica in Italia. Di mancato riconoscimento? Di calo della dignità? Di assenza di cultura? Della scomparsa di un'etica? Della assenza di ribellioni? Di sfruttamento commerciale? Di pirateria elettronica? Di troppi fai da te "do it yourself"?
Oppure soltanto di una più banale banalità quotidiana.
Attenzione però.
Dalla banalità alla mediocrità, il passo è breve.

Giancarlo Iliprandi 10 Marzo 2013


Tutte le immagini della serie Basta che accompagnano questa lettera aperta sono state progettate e diffuse da Giancarlo Iliprandi in questo mese di Aprile.

2 commenti:

  1. Non proprio rassegnato...
    GDA Op-Ed Opinion Art
    Cordialamente
    Giancarlo Dell'Antonia
    http://giancarlodellantonia.blogspot.it/p/da.html

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  2. Finalmente sei tornato, anche se non lascio commenti leggo
    Brunella

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