Brad Holland, nato in Ohio nel 1943, si trasferisce nel 1967 a New York dove inizia a disegnare per “Playboy” e per il “New York Times”. La sua prima mostra italiana si è tenuta a Torino, nel quadro del Salone del Libro, nel 2006. Al lavoro di illustratore affianca una intensa attività di pittura fantastica e visionaria.
«Almost everybody is an artist these days. Rock-and-roll singers are artists. So are movie directors, performance artists, makeup artists, tattoo artists, con artists, and rap artists. Movie stars are artists [...] Victims who express their pain are artists. So are guys in prison who express themselves on shirt cardboard. Even consumers are artists when they express themselves in their selection of commodities. The only people left in America who seem not to be artists are illustrators.» Brad Holland
Stiamo molto attenti e non scambiamo la frase di Brad Holland, che poniamo a esergo della nostra riflessione, per la solita lamentela del povero illustratore ridotto di ruolo. La forte, orgogliosa, affermazione di identità di Holland è un programma di lavoro politico. L’essere artista, in grado cioè non tanto e non solo di produrre figurette per adornare un testo, significa dare a quelle figurette (che non chiameremo più così) un percorso di senso, una dignità di opera, una struttura di pensiero. Si inseriscono, quelle immagini, in un percorso, fanno parte di un insieme, vivono una loro storia.
L’artista Brad Holland rivendica quindi un ruolo preciso perché il suo operare, e la forza di quell’operare, nascono tutti interi da quella rivendicazione che ne è premessa e conseguenza. Non un illustratore dimezzato, quello postulato a gran voce da Holland, capace al più di occupare, nell’indifferenza generale, un pezzetto di pagina, ma un costruttore di storie parallele alle parole, complementari, rapsodiche, necessarie. Da qui, naturalmente, nasce l’affermazione, quasi una pretesa, della propria autorialità. È una parola orrenda, ne conveniamo, ma il significato fa aggio sul suono; l’artista Brad Holland non accompagna le parole che deve illustrare, ne scrive una propria versione che deriva dalle suggestioni del testo, ma anche dalla propria cultura e dalle proprie riflessioni. Ne diviene autore intero, con una sua etica precisabile e avvertita, capace cioè di interpretare e leggere la realtà in modo originale e quindi di poterla offrire alla visione dei lettori in modo non convenzionale.
«Quello che leggiamo di parole o immagini – dice – può essere poco comprensibile a prima vista, a volte misterioso. Eppure lascia dei sedimenti che è possibile vengano richiamati alla memoria anche ad anni di distanza. Succedeva con mio padre. Lui non aveva l’abitudine di raccontarmi storie per bambini ma di leggermi quello che anche lui stava leggendo. A volte non capivo nulla, ma è successo che dopo qualche anno certe frasi mi tornassero in mente e diventassero immediatamente chiare. È lo stesso che succede con le immagini. Possono essere misteriose ma è possibile che a volte, quando quello che l’artista vuol dire è rappresentato con efficacia, diventino improvvisamente chiare e diano nuova luce alla narrazione. Un punto di vista diverso, complementare, necessario.»
Le sue storie disegnate, che escono sempre dall’ombra e vanno verso la luce («In my case, the dark-to-light isn’t just confined to the work itself. It is a way of working»), sono costrette in un universo claustrofobico dove l’uomo è schiacciato, minimizzato e avvilito dalla forza della metafora, che incombe impietosa. Perché le figure di Holland, che si agitano in scenari densi di pennellate morbide, all’apparenza, sono altresì inquietanti figurazioni, emblematiche della condizione umana, incapaci spesso di trovare una definizione e un senso oggettivi e inequivoci.
Sono, le figure di Brad Holland, delle grandi, evidenti, metafore. È una metafora la gigantesca faccia di clown sguaiata e orribile che cresce nella pancia dell’uomo e che pare evidenziare una sua natura animale incontrollabile e laida; sono metafore i volti fissi e inquieti che ci guardano (minacciosi o assenti?) dall’interno della pagina. Abbiamo difficoltà a interpretarli, quegli sguardi e quelle metafore, ma sappiamo immediatamente che di agitarsi inquieto si tratta, di disagio, di difficoltà di rapporti. Holland non vuole rassicurarci, non ci offre sacre immaginette consolatorie, cerca semmai di proiettare fuori dalle sue pagine gli incubi più angosciosi e rimossi delle nostre epoche.
Dalla copertina della Notte di Q. (testo di Michael Reynolds, Orecchio Acerbo, 2006) occhi giganteschi ci guardano dall’interno delle finestre. Ci spiano, controllano ogni nostro atto, sono un grande fratello imprendibile, sfuggente, pauroso. Quegli occhi sono tra noi, dentro le nostre case. La nostra retina ne è colpita e trasmette l’angoscia e il gelo. Che mondo c’è al di fuori (nelle città, nei villaggi, per le strade…) se fin dentro le nostre case vivono quei mostri terribili?
Il racconto di Michael Reynolds che origina il libro è bellissimo e imprevedibile, scorre tra quinte prospettiche e strade di notte, tra gesti concitati, in fuga nei silenzi del buio per andare a guadagnarsi una catarsi possibile. Ma gli occhi, quegli enormi occhi che Brad Holland ha posto a emblema del suo racconto, ci hanno gelato l’anima e continuano a trasmettere disagio e paura.
Che grande, completo, profondissimo artista è questo signore che si chiedeva, all’inizio, se l’illustrazione fosse da considerare arte!
Testo tratto da: Andrea Rauch, Il mondo come Design e rappresentazione, Usher Arte, 2009.
Nessun commento:
Posta un commento