Shirley e Milton Glaser, Sansepolcro, 1989 |
Nella Trentaduesima strada East, a Manhattan, accanto alla palazzina primo Novecento che, ormai da più di trent’anni, ospita su quattro piani lo studio di Milton Glaser, c’era, alla fine degli anni Novanta, un cortile di asfalto, attrezzato a povera area di giochi e di ricreazione per una scuola elementare della zona. Il cortile era coperto di asfalto, incassato tra gli edifici e chiuso, sul fronte della strada, da una cancellata.
Poche strutture: un’altalena, uno scivolo, l’immancabile canestro per una partitella veloce. Sulla cancellata erano comunque cresciute delle sagome di metallo dai colori sgargianti. Alberi verdi che si piegavano al vento e stentavano, crediamo, a venir su tra i grattacieli di Manhattan, ma che portavano, d’estate e inverno, grossi, rotondi frutti rossi maturi. Una targhetta di lato alla cancellata ricordava che il progetto e la realizzazione di quel giardino imprevisto e imprevedibile era dovuto alla generosità creativa di un vicino di casa; Milton Glaser, appunto.
Il fatto non sarebbe memorabile né il progetto particolarmente significativo, all’interno di un’opera grafica tanto ricca e complessa, se non fosse che proprio quegli alberelli nati tra il cemento ci permettono di chiosare uno degli aspetti a parer nostro paradigmatici della personalità di Milton Glaser.
Esistono infatti artisti che si ripiegano su se stessi e cercano (trovando a volte) ragion d’essere nella propria ispirazione e nella propria autoreferenziale creatività. Altri che, di contro, postulano continuamente il confronto incontro scontro con la realtà per trarne conforto e giustificazione.
Esistono infine artisti, e Glaser è senz’altro tra questi, che cercano un proprio percorso all’interno della realtà, forzando e modificando quest’ultima alla luce delle proprie fantasie, dei propri progetti, delle proprie inclinazioni, della propria arte.
Gli alberi cresciuti nel cortile non sono quindi un gesto, pur generoso, fine a se stesso: sono un atto necessario dell’esistenza professionale di Glaser, uno dei momenti in cui l’artista prende atto di come il mediocre quotidiano possa e debba essere piegato a un’esigenza personale e a una speranza diverse.
Uno dei momenti in cui la propria volontà diventa progetto e quindi quasi atto condizionante, hic et nunc, di tutto l’esistente. D’altronde la tentazione di condizionare la realtà (o di riversare la propria esperienza di vita nel mondo professionale) è fortissima per un designer che non si rifugi pigramente nel comodo angolo del mestiere.
È quindi possibile che elementi quali l’ideologia, la cultura, l’arte, gli affetti, vadano a intrecciarsi in nodi inestricabili e concorrano a mettere a nudo brandelli importanti dell’anima del progettista. Brandelli che, raccolti insieme, ne saranno la biografia e il progetto complessivo.
Il discorso è impegnativo e scivoloso. Si rischia di caricare la personalità dell’artista di fardelli pesanti e inopportuni. D’altronde, però, chi saprebbe, nell’opera di Glaser, distinguere quale sia il confine tra la grafica rappresentante e la realtà rappresentata?
Si afferma in sostanza che la vita professionale, affettiva, sociale, politica di Milton entra nella realtà del secolo e la piega. E che la realtà del secolo entra nella vita di Milton e la condiziona, in un incontro-scontro sempre in bilico tra le ragioni dell’essere e quelle del rappresentare.
Dopo Milton Glaser non vedremo più Bob Dylan ma il Dylan di Milton, né il ricordo di Elvis potrà essere affidato solo alle macabre caricature dei suoi ormai imbolsiti fan-cloni. Elvis sarà giovane e bello per sempre nella struggente icona che Glaser ha consegnato alla storia del ventesimo secolo.
Si dirà però che quello di interpretare il proprio tempo è destino comune a tutti gli artisti importanti, ed è certo vero. Ma è peculiarità di pochi filtrare il tempo collettivo e restituirlo per qualche verso trasformato.
Ancora pochi esempi. Glaser si è avvicinato, in anni più o meno recenti, a Piero della Francesca, e ce ne ha dato una versione attenta e rispettosa. Rispettosa, certo, ma anche profondamente glaseriana, con i paesaggi della Val Tiberina che trasudano i toni rossastri dell’autunno del New England.
In Piero Milton ha cercato un’assonanza e l’ha trasformata in ragione sufficiente d’adesione e, al tempo stesso, di tradimento.
In Claude Monet Glaser ha visto un progetto simile al suo; una vita vissuta creativamente senza cedimenti, in equilibrio tra quotidiano e arte.
La vita reale di Monet Glaser l’ha riscritta e resa immaginaria, e per questo appunto tanto più vera perché emendata degli elementi quotidiani che potevano renderla meno emblematica.
E questo è quanto di più vicino al concetto di potere riesca a venirmi in mente. Cosa può infatti definirsi potere se non piegare la volontà e la fantasia di tutti alle proprie volontà e fantasia?
Lo dice, con la consueta lucidità lo stesso Glaser: «Potere è una parola interessante perché se togli al suo significato gli aspetti negativi e provi a capire cosa vuol dire, scopri che è sinonimo di abilità nel gestire un piano. Se cerchi di definire la parola “design” scopri che ha lo stesso significato. Design e potere sono concetti identici.»
Il potere del design, dunque. Quello che non riesce ad accettare che gli alberi non crescano a Manhattan, quello che riesce comunque a farli crescere. Il potere di chi pensa che la realtà non è sempre e solo grigia ma, a volte, è di un bel verde squillante punteggiato di grosse, smaltate, mele rosse.
Testo tratto da: Andrea Rauch, Il potere del Design, in Milton Glaser, Venezia, Nuages, 2000.
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