Edward Gorey e i suoi gatti |
Ogni analisi che si può tentare viene immediatamente turbata e contraddetta perché Gorey si sottrae alle normali classificazioni, si mimetizza quasi all’interno dei suoi disegni, che si staccano dal loro lettore per adagiarsi in un universo stranito di nonsense espliciti e di ambiguità implicite.
Ma Gorey, si dirà, è un disegnatore gotico, macabro, noir se mai uno ve ne fu. Può darsi, anzi sicuramente, ma l’essenza del suo essere ‘macabro’ è la distanza, il distacco che stabilisce sempre nelle sue storie, dove accade tutto senza che una foglia si muova, senza che un’emozione si palesi, senza che una vibrazione dei sentimenti si agiti.
Eward Gorey, La bambina sventurata, 1961 |
L’ospite sgradito arriva una sera al castello. È un uccello? Un pinguino? O cosa? Spiaccica il naso contro il muro e non si muove, finché gli abitanti, stufi, non se ne vanno a letto. Lo ritroveremo, quell’ospite incongruo, a rubare salviette, a gettare orologi nel lago, a mangiare piatti di coccio per colazione. Starà al castello per diciassette anni, senza una ragione o un fine. Lì rimane, silenzioso e quasi immobile, ieratico e stupefatto.
La storia è questa e dentro c’è tutto e niente; c’è quello che vogliano vederci e quello che ci ha messo Gorey. Come possiamo interpretarla? Boh! Come vogliamo, perché la logica ci sfugge e corre via lontano. Ne sentiamo il fascino, ne intuiamo il divertimento e, perché no, la bellezza, ma l’ospite rimane per noi sempre misterioso e lontano.
Eward Gorey, L'ospite sgradito, 1957 |
Eward Gorey, L'ospite sgradito, 1957 |
Eward Gorey, L'ospite sgradito, 1957 |
La parabola grafica di Edward Gorey ci sembra, in parte, simile a quella di George Herriman, il celebrato autore di Krazy Kat, anche lui amato e osannato da legioni di ammiratori, ma in fondo raramente capito, tanto il suo humour si mostrava rarefatto e distante. Gorey, come Herriman, non la butta mai ‘in caciara’, non concede nulla alla platea, si mostra ma non si concede. I drammi di cui le sue storie sono piene avvengono sempre fuori scena e la fissità dei protagonisti segnala una loro completa e quieta 'separazione'.
Gorey è un maestro che non poteva produrre allievi e anche l’unico che gli è stato spesso accostato, Tim Burton, si muove su coordinate affatto diverse e i punti di contatto sono assai più rari delle prese di distanza. Come Gorey anche Burton indugia sui particolari macabri, a volte truculenti, surreali e insensati della violenza (soprattutto sui bambini e sui diversi) ma non riesce a staccarsene del tutto, non la pone, come riesce benissimo a Edward Gorey, sul tavolo dell’entomologo per esaminarla freddamente e spassionatamente. Nel destino dei Piccoli di Gashlycrumb, che segue in filastrocca le iniziali del loro nome (M è per Maud/ il mare le fu boia, N é per Nevil/ morì dalla noia…) avvertiamo l’eleganza ma anche la distanza di un gioco intellettuale raffinato; nel Bambino Ostrica di Burton, sentiamo finalmente vibrare anche una nota di partecipazione emotiva. Il dramma ci si avvicina e corriamo a prenderne parte.
Eward Gorey, I piccoli di Gashlycrumb, 1963 |
Andrea grazie! È un servizio culturale questo tuo, preziosissimo poiché cade in una società distratta e di corta memoria. Abbracci!
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