Leonetto Cappiello, Autoritratto, 1928 |
Quando, nel 1897, Leonetto Cappiello, come tanti giovani artisti della sua generazione, si trasferisce a Parigi dalla natia Livorno, gli scenari della “cartellonistica” sono ancora saldamente presidiati da Chéret e Toulouse-Lautrec.
Cappiello ha alle spalle poco più della sua giovanissima età (era infatti nato nel 1875) ma si inserisce comunque subito nella corrente di gusto dominante; le sue prime prove da affichiste, molto vicine alla “maniera” di Chéret, rimandano al consueto armamentario fin de siècle di ballerine sgambettanti e di cantatrici languide e spigolose.
Il 1904 sarà per Cappiello l’anno della svolta decisa, il momento in cui afferma in maniera piena il proprio “metodo” di lavoro e la propria “ideologia” grafica. Cappiello infatti si va progressivamente ma decisamente allontanando da ogni modello di riferimento per elaborare quella “mitologia” grafica che diventerà la sua griffe riconoscibile e la chiave del suo largo successo internazionale.
La vita, reale o comunque idealizzata, si allontana dunque dalla sua opera per lasciare il posto a un universo metaforico personalissimo popolato da folletti, diavoli, maschere, ninfe. L'artista non tenta però una improbabile fuga dalla realtà verso una sorta di “arcadia” dell’affiche, ma cerca di ricostruire ogni immagine di prodotto in maniera simbolico-emblematica ricorrendo a un vero e proprio metalinguaggio cui il prodotto stesso può riferirsi al di là di ogni inefficace, secondo l’artista, definizione realistica.
«A mio avviso – dirà l’artista nel 1939, concedendo un’intervista alla radio francese – il manifesto deve essere soprattutto un’esperienza grafica, un atto di autorità molto forte sul passante, o comunque su chi lo osserva. Un manifesto ben pensato e ben realizzato può in poco tempo far conoscere un prodotto nuovo o ridare forza ad uno vecchio e dimenticato.»
E ancora: «Non arriverete forse a citare un solo manifesto che sia diventato famoso per il ricordo della riproduzione del prodotto. Tutti i manifesti che ricordate sono rimasti nella vostra memoria per la forma dell’immagine inventata dall’artista, che è diventata inscindibile dal prodotto e dal suo nome.»
In questo sollecitar della memoria Cappiello ha pochi uguali nella storia della grafica: basterà ricordare le immagini per Campari, per Thermogène, per OXO Liebig, per Bouillon Kub. Se è vero che in un manifesto tendono infatti a coesistere due campi, quello della tipografia, che esplicita il messaggio verbale dell’annuncio, e quello dell’immagine, che ne evidenzia il carico di narrazione e/o suggestione, è ovvio, di conseguenza, che un buon manifesto sarà quello in cui i due campi si integrano senza stridore o contrasti.
Siamo nei primi anni del secolo (l’attività di Cappiello si protrarrà inesausta fino agli anni trenta) ma si scorgono già i fermenti di tanta grafica successiva. Si guarda il maestro livornese e si vede, sullo sfondo, la grande ombra di Cassandre e, ancora più tarda, quella di Raymond Savignac.
«Voi siete stato per noi la prova vivente che si poteva, senza alcuna diminuzione, fare pienamente opera d’artista prendendo per galleria le palizzate pubbliche al posto dei muri dei saloni ufficiali».
Testo tratto da: Andrea Rauch, Graphic Design, Guidecultura Mondadori, 2006.
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