mercoledì 31 agosto 2011

Maestri 8. Toti Scialoja


Toti Scialoja, pittore e scenografo, nasce a Roma nel 1914. La sua maturazione artistica avviene negli anni Cinquanta con l’adesione all’astrattismo informale. Docente e direttore dell’Accademia di Belle Arti di Roma. Negli anni Settanta pubblica alcuni libri illustrati di poesie per bambini (Amato topino caro, Una vespa! che spavento, Ghiro, ghiro tonto…) che, nel 1991, saranno esposti a Bologna e Roma nella mostra Animalìe. Muore nel 1998. Pubblichiamo l’intervista a Scialoja riportata nel catalogo della mostra Animalìe.

Toti Scialoja

Domanda. Tra il 1970 e il 1980 Toti Scialoja pubblica quattro libri di poesie illustrate per bambini. Come è nata questa esperienza?

Toti Scialoia. Naturalmente devo risalire alle origini. Sono sempre stato un accanito lettore di libri. Fin dall’età di sei anni. Erano il mio scopo e la mia gioia. Mi interessava tutto: la prosa che leggevo e i disegni che la illustravano. Ricordo una grande passione per i racconti fantastici di Yambo, per Salgari e per Verne.
Le illustrazioni mi facevano sognare quasi quanto il testo. Ho amato alla follia i disegni di Antonio Rubino, quelli di Attilio Mussino, quelli di Bruno Angoletta, per non parlare di Doré e Grandville. Posso dire di essermi formato sui grandi illustratori per l’infanzia.
La mia fantasia si alimentava di quei disegni, quasi fossero apparizioni. Mi piaceva tutto.
Quando, nel 1961, ho cominciato a scrivere poesie per il mio nipotino che stava a Roma (io in quegli anni abitavo a Parigi) non potevo concepire che i versi non fossero accompagnati da un disegno. E naturalmente mi ricordavo bene che per un bambino il disegno deve essere molto leggibile, chiaro, senza inutili virtuosismi. Infatti i disegni che andavo facendo erano semplici, immediati, senza sfoggi di sapienza stilistica. Sono disegni ingenui. Un gatto è un gatto, con tutte le sue caratteristiche.



D. Una vocazione che si forma e si consolida, pare di capire, tenendo ben fermo come riferimento quella grande palestra dell’illustrazione che fu il “Corriere dei Piccoli”.

T. S. Certo. Attilio Mussino disegnava Bilbolbul, il negretto sognatore che prendeva sul serio i modi di dire.
Antonio Rubino era autore di tanti indimenticabili personaggi, da Quadratino a Pierino, dal caprone Barbabucco al Collegio la Delizia. Angoletta poi è ancor oggi soprattutto famoso per Marmittone.

D. Non ha però parlato di Sergio Tofano.

T. S. Perché a me interessava meno. Per Tofano non avevo lo stesso amore che per gli altri di cui stavamo parlando. Era un grande disegnatore ma non mi accendeva la fantasia; i suoi disegni erano forse un po’ troppo eleganti e manierati.

D. Più che al Tofano disegnatore pensavo però al Tofano scrittore e uomo di teatro. Un certo modo di fare poesia, il gusto per l’allitterazione, per le assonanze, per certi artifici di metrica, per la parola e il suono, li ritroviamo poi molto nelle poesie di Scialoja.

T. S. Perché è un tratto comune a ogni letteratura che si rivolge all’infanzia. I miei versi, come d’altra parte quasi tutta la poesia per bambini, hanno origine dalla filastrocca e dalle conte, che si sono sempre avvalse di allitterazioni e giochi di parole. Chi scrive per bambini ben difficilmente può sconfinare da questo terreno.
Naturalmente poi non basta la rima per fare una buona filastrocca e troppi di coloro che si occupano di bambini pensano di avere a che fare con dei piccoli idioti. Il bambino è invece acutissimo, malizioso, angosciato: i suoi meccanismi psichici sono complessi e tormentati. Purtroppo molti adulti si dimenticano della propria infanzia e si rivolgono ai bambini come a dei poveri sciocchi. E invece si tratta di entrare in comunicazione con il mondo dell’infanzia, ognuno con la propria personalità e il proprio linguaggio, da adulto a bambino, senza inutili birignao e bamboleggiamenti.
Se il contatto è onesto funziona ed è l’unico possibile.



D. Parlavamo prima di ascendenze. Si dovranno ricordare anche i limericks inglesi.

T. S. Certo. La mia passione per la lettura, e poi per la scrittura, deriva in gran parte dall’Enciclopedia dei ragazzi. Su quelle pagine, quando avevo non più di sei anni, cominciai a leggere i nonsense inglesi di Edward Lear. Divenni un fanatico; amavo alla follia sia i testi che le illustrazioni. Al contrario, le poesie dolciastre di Angiolo Silvio Novaro e degli altri che allora si dovevano leggere mi davano un senso di peso, di malessere.
Era un mondo di nonni malati e di uccellini che hanno freddo: un mondo francamente stucchevole. Ne sentivo ripugnanza, non mi ci riconoscevo. C’era qualcosa di falso, come un cattivo odore. Con i nonsense mi sentivo a casa mia, ero felice. Erano i miei paesaggi.

D. È un atteggiamento culturale molto preciso. Il nonsense nasce e prospera in un habitat particolare. Carlo Izzo, che ha curato e tradotto la raccolta dei limericks di Lear per Einaudi riporta un esempio: se in treno davanti a me, che sono italiano, uno sconosciuto si versa in testa e si spalma un barattolo di miele io penso «È matto!» e cerco di cambiare posto. Se la stessa cosa succede a un inglese questi probabilmente penserà: «Forse è un nuovo metodo per prevenire la caduta dei capelli. Meriterebbe provare».

T. S. È un atteggiamento di fronte alla realtà che nasce da un’abitudine culturale diversa. È quella che si può definire la presa di coscienza del mondo attraverso la propria esperienza individuale. Noi siamo cattolici mediterranei e meno pronti a rompere le convenzioni, che accettiamo in genere come patti magici. L’anglosassone vuole assumere ogni esperienza nella propria coscienza e risolverla come fatto personale.

D. Riassumendo, dunque, Toti Scialoja si forma a mezza strada tra il “Corriere dei Piccoli” e Edward Lear.

T. S. C’è anche un’altra componente, questa (se ci si passa il termine) più decisamente scialojana. Nella mia famiglia è sempre stato vivo il gusto per l’ironia e lo sfottò.
Ci prendevamo spesso in giro l’uno con l’altro, ci scrivevamo addosso versetti comici; a nove anni scrivevo poesie satiriche su quello che succedeva intorno a me. Questa salacità che trovava forma più pungente in versi e rime era una caratteristica propria della famiglia. Anche questo, credo, va messo in conto.

D. Poi però Scialoja cresce, diventa adulto, e comincia a scrivere poesie per i suoi nipotini.

Amato Topino caro, Bompiani, 1971
T. S. Quei primi versi nacquero da una spontaneità incontrollabile. La molla forse fu fatta scattare dalla lontananza. In quegli anni, i primi anni Sessanta, mi trovavo ad abitare a Parigi, parlavo francese, pensavo in francese, sognavo in francese. Avevo finito quasi col perdere il gusto della parola italiana che è tutta corposa e concreta. Questo rimpianto per la lingua, che mi mancava, e la gioia di trovare un mezzo adatto per comunicare con il mio nipotino, che stava a Roma, mi spinsero a scrivere delle poesie italiane dove la parola ha un suo peso e peculiari valenze interne.
La non puerilità di quelle poesie deriva anche dal fatto che indirizzavo sì le poesie al mio nipotino ma segretamente erano dirette a mia moglie che doveva leggerle al bambino. Certe furbizie del verso, certi tratti più sottili erano per Gabriella Drudi, che stava a Roma con il piccolo James.

D. Rivolte segretamente a un adulto certo, ma il bambino cosa diceva?

T. S. Si divertiva come un matto. Se le faceva leggere continuamente. Circolavano comunque per tutta la famiglia e tutti sembravano apprezzarle molto.

D. Dalla famiglia, inevitabilmente, il cerchio si allarga.

T. S. Qualche anno dopo, nel 1969, in un periodo cupo e difficile della mia vita mi divertii a costruire un vero libro, in copia unica, per le mie altre nipotine, Barbara e Alice.
Era un librettino rilegato in marocchino rosso che circolava tra gli amici, correva di mano in mano. Fino a capitare in quelle di Ugo Mulas, povero amico, grande fotografo, che si appassionò davvero. «Queste poesie hanno una struggenza...», diceva struggenza non struggimento, una parola strana. Mulas cercò di far pubblicare le mie poesie a Milano, ma senza successo, da Rosellina Archinto. Le pubblicò poi Emanuela Bompiani nella sua collana di poesie per l’infanzia.
Il titolo era Amato topino caro e uscì nel 1971. Emanuela Bompiani lavorò con me con grande amore e passione. Mi permise di impaginare le poesie in spazi che si compongono sulla pagina in modo sempre diverso. Fu un bel lavoro.

Amato Topino caro, Bompiani, 1971

D. Poi c’è l’incontro con Calvino.

T. S. La lettera di Calvino arrivò dopo un anno. Diceva: «Caro Scialoja, il libro che lei mi ha mandato è stato trovato da mia figlia che l’ha voluto portare con sé in vacanza. Per tutta l’estate l’abbiamo sentiva recitare “L’ippopotamo disse: Mo”e “Pipistrello, ti par bello”. Le sue poesie piacciono molto anche a me. È il primo vero esempio italiano di un divertimento poetico congeniale alla tradizione inglese del nonsense e del limerick. Se ne ha delle altre sarei felice di pubblicarle.»
Io il nuovo libro in realtà l’avevo già scritto. Erano oltre cento poesie che avevo nel cassetto. Disegnai le illustrazioni e le mandai: uscì qualche tempo dopo col titolo: Una vespa! Che spavento.
Poi divenni anche amico della figlia di Calvino, Giovanna. Era molto carina, dalle buone maniere, quasi una bambolina, molto simpatica.

Una vespa! Che spavento, Einaudi, 1975

D. Dal 1979 Scialoja non scrive più per i bambini?

T. S. L’esperienza per i bambini è racchiusa tra gli anni Sessanta e Settanta. Nel ‘76 accadde una cosa per me molto importante. Il poeta Antonio Porta, in un convegno letterario che si svolgeva a Orvieto, citò il mio nome definendomi «un vero poeta».
«La poesia è sonorità – diceva Porta – e Scialoja crea suoni straordinari».
Questo mi incoraggiò e mi diede forza. Nanni Balestrini, subito dopo, mi chiese un nuovo testo, delle poesie «un po’ meno infantili». E io ce l’avevo già un testo nuovo, delle poesie più salaci e cattive: La stanza la stizza l’astuzia.
Questo è già un libro di nonsense per adulti. Da allora (se si esclude la parentesi di Ghiro ghiro tonto, del 1979, che è ancora un libro per bambini) mi sono accorto del nascere di una vena inattesa per cui la poesia non era più rivolta a qualcuno in generale, o ai bambini in particolare, ma principalmente a me stesso. Era un mio modo di espressione senza più predeterminazione.

D. E ora?

T. S. Quando s’invecchia abbiamo sempre più bisogno di raccontare. Continuo a scrivere poesie anche se via via mi sono accorto che la metrica sempre usata non è più sufficiente. Non mi bastano più il settenario, né l’ottonario; l’endecasillabo non è abbastanza prolungato. Ho bisogno di altri ritmi, più distesi. Non voglio però uscire dalla metrica. Io non amo i versi liberi. Poesia per me è un verso convenzionalmente racchiuso in una forma.

D. Come mai Scialoja non ha mai avuto la tentazione del racconto per l’infanzia? Eppure esiste una tradizione di autori che scrivono e illustrano i propri libri.

T. S. Io non mi considero uno specialista dell’infanzia. Per pura bizzarria mi è nata questa vena di poesia nonsensica e per tanti anni l’ho usata come forma di esorcismo verso la mia condizione d’isolato. A Parigi vivevo in volontario esilio, si può dire, dimenticato da tutti, ignorato da tutti. Era un’esistenza amara. Questi versi mi servivano come rimedio alla solitudine, come consolazione cantata a me medesimo. Non ho comunque mai pensato, come dovrebbe fare uno specialista, all’infanzia come a un territorio da esplorare e attraversare.
Quando scrivevo poesie per bambini ero io stesso un bambino che diceva poesie, che si divertiva e giocava. Io non conosco tutte le infanzie, conosco solo la mia infanzia. Quello che ricordo di allora è uno stato d’animo dentro il quale vivo ancora. L’infanzia è una cosa molto seria. Il mio ricordo è un periodo di solitudine assoluta, di sospetto, di mito continuo. Il tempo andava all’infinito, lo spazio andava all’infinito e la morte non esisteva. Questa infinità, questa perpetuità mi sgomentava e affascinava allo stesso tempo. Sapevo di essere un bambino, assumevo il ruolo con amarezza, o con dolcezza se era il caso, ma ero pur sempre io, non ero né bambino né altro.
La mia infanzia di allora è immersa in una sensazione di unicità. La mia infanzia sono io.

Testo tratto da: Toti Scialoja, Animalìe, Graphis, 1991.

1 commento:

  1. Ci scrive Antonella Abbatiello:
    "... che piacere rileggere l’intervista al caro Maestro Toti. La conosco quasi a memoria ma è sempre emozionante risentire le sue parole. Grazie per averle diffuse.
    Forse conoscete già le tavole che ho fatto per la mostra dedicata a lui a Roma nel 2008. Ve le mando, nel caso non le conosceste. È stato entusiasmante realizzarle."

    http://www.antonellaabbatiello.it/immagini.php

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